Parole (in ordine)

Luci di palazzi come lampi in lontananza catalizzano la mia attenzione. Tivoli sopra, io sotto. La musica (che non ho ma che immagino) mi suggerisce colonne sonore infilandosi tra i capelli come questo leggero vento che non riesce a infastidirmi.
Cerco di non ascoltarmi perché ho paura di sentire il suono delle mie ferite, tra le parole di chi sto ascoltando da alcune ore. Siamo tra amici, se vuoi puoi anche piangere. Non me lo dicono ma me lo rivolgono col pensiero. Quante volte ancora rimarrò orfana, quante imparerò nuovamente a voler bene? Fa' che accada quel che voglio: che non debba di nuovo scrivere parole su una lapide, che non torni il rimorso di essermi innamorata dell'uomo sbagliato, che non speri nuovamente di adattarmi alla rassegnazione.
Le mie parole scorrono senza troppa importanza, senza altra importanza che veicolare affetto; gli occhi si muovono e fanno il resto, la gola mi si blocca qualche minuto ma riesco a riprendere il filo senza che la Bestia abbia il sopravvento.
Alla prima occasione di contatto le mie difese crollano e gli occhi si riempiono, ma resisto: questo dolore deve morire dove deciderò io. Aspettami paziente, che ora arrivo.

Catemera, 01/06/2014 - 18:26

Due domande giuste, due risposte sbagliate.
- Sei felice?
- Sono in equilibrio.
Perché ho risposto così? Perché avevo paura dello sguardo di ritorno. Perché avrei voluto buttar fuori un limpidissimo no dal sapore malinconico e la serata non lo era.
La semplicità liberatoria del mio no sarebbe stata infelice come me e avrebbe richiesto troppe spiegazioni.
Solo pochi giorni prima scrivevo a Pietro "sto facendo qualcosa che mi piace, anche se per poco, che considerato che al momento non ho altro e mi mancano tutte le cose che vorrei, non è poco, almeno è qualcosa".
- Sei felice?
- Sono in equilibrio. Sono venuto a patti con l'idea di essere infelice.
Ma non è vero. Non riesco ad accettarlo. Mi anestetizzo tanto e a lungo per riprendere a percepire la realtà senza subirla, ma non ho accettato un bel niente. Non ho accettato di essere solo, di non essere innamorato, di essere un sopravvissuto, di sentirmi libero solo quando posso permettermi una delle mie fughe in giro di quelle senza meta.
Non riuscirò mai a fare i conti con il mio bisogno di contatto e la difficoltà di guadagnarmelo.
Sono felice? Non sono felice.
Sono anestetizzato per la maggior parte del tempo ad eccezione dei periodi in cui sento che rischierei di perdermi cose belle, e allora scelgo di togliermi quel sedativo emozionale che mi azzera i dolori ma anche i piaceri.
Sono felice? Sono sospeso in attesa di esserlo.
- Quante volte ti sei innamorato?
- Una... due... tre.
Comincio a raccontare e il cervello mi si spegne. Non so se abbia senso raccontare le mie storie. Raccontano il mio vissuto ma non dell'intensità dei miei sentimenti, o meglio della mia capacità di innamorarmi.
Perché quando non sono sedato mi innamoro in continuazione, non importa se per pochi minuti e ogni maledetto giorno. Mi innamoro sempre.
Sono stato insieme a persone di cui sapevo di non essere innamorato e a volte mi è andata bene, altre mi è servito a capire qualcosa di me: intendo, perché l'abbia fatto pur non volendolo fare.
Forse la domanda migliore sarebbe dovuta essere: "quante volte non ti sei innamorato?". Perché io potessi raccontare qualcos'altro di me, qualcosa di meno semplice e meno immediato da comprendere guardandomi.
Perché il mio bisogno insopprimibile di contatto ha sempre dei motivi gravi per decidere di mettersi in pausa e forse un giorno dovrei raccontarli a chi ha il diritto di conoscerli. E anche, perché di certe persone mi innamoro subito o prima. Ed è difficile anche così, anzi è impossibile dimostrare che non si tratti solo di un banale colpo di fulmine.
Quante volte mi sono innamorato? Escludendo quelle in cui il sentimento era condiviso (no, non ricambiato) direi tutte. Tutte le volte. Tutto il tempo che ho vissuto escluso quello in cui mi sono spento.

Catemera, 24/05/2014 - 14:46

Le gambe morbide dalle ginocchia irriverenti presero posto sul divano allungandosi impudenti in una mossa felina, una di quelle inconsapevoli ma eloquenti, una di quelle che catturano definitivamente il mio sguardo. Lui era lì  calmo e io non lo ero per niente.
Mi scappavano fuori dalle mani tutte le buone intenzioni con cui avevo promesso a me stessa di partecipare alla serata. Erano intenzioni buone per tutti fuorché me.
Si fece scivolare nell'angolo del divano mantenendo lo sguardo fisso sulle mie anche, forse sulle mie ginocchia, forse sulle mie guance, quelle su cui avevo percepito una vampata più volte nell'arco della serata, dopo così tanti anni dall'ultima volta che mi era capitato che nemmeno me ne ricordavo la sensazione.
Rifiutavo il contatto poiché ne avevo bisogno, non incrociavo lo sguardo perché avrei desiderato non distoglierlo, mi negavo ogni cosa che sapevo avrebbe generato dipendenza.

Avrei voluto tutto e per questo scelsi di non prendermi niente.

Catemera, 24/05/2014 - 13:57

L'uomo si tolse il cappello lentamente, per non disordinare i capelli, seppur ricci e scomposti. Sorrise, nel silenzio della sua calma, pensando all'ultima donna che ci aveva infilato le dita, in quei ricci, per scorrerne la morbidezza. Ormai decisamente passato.
Un'estate delle più calde, quella, ma il cappello era necessario per ripararsi dal sole: i suoi occhi non erano più abituati alla luce, non ora che trascorreva quasi tredici ore al giorno in un ufficio situato dieci piani sotto il livello del suolo.
Il tramonto sul mare era puro piacere per gli occhi, e con quel caldo il vento gli portava alle orecchie il rumore delle onde, anche se nella desolazione della strada sarebbe riuscito a sentirle comunque tutte, una per una, come fossero in fila.
Guardava il cappello tra le dita e sorrideva, senza farsi contagiare dalla malinconia di tutte le assenze, e le mancanze. Poteva immaginare l'intera strada come un'estensione di casa sua, ormai, anzi, poteva farlo con l'intera città: si sarebbe potuto seder per terra sull'asfalto, a sorseggiare una tazza di tè, o meglio, considerato il clima, una limonata ghiacciata. Nulla di tutto questo gli generava angoscia. Solo un'enorme serenità colma di aspettative.
Lasciandosi il sole alle spalle, riuscì a tornare in direzione di casa con il cappello tra le mani, senza sentire il bisogno di coprirsi di nuovo gli occhi. Il caldo bollente sulle spalle e sulla schiena, tenace e rassicurante per tutto il tragitto del lungomare, non gli impediva di sentire i rumori degli oggetti, i rumori che immaginava facessero gli oggetti con la loro consistenza, con la loro semplice esistenza. Faceva finta che ci fossero persone a toccare tutto ciò che incontrava lungo la strada, cercava di ricreare vita vera attorno a sé.
L'ingresso del suo palazzo, ormai senza portiere, sembrava spaziosissimo, pur essendo sempre stata una di quelle porticine piccole che si aprono nei portoni più grandi, uno di quei passaggi solo pedonali ricavati nel legno per comodità e sicurezza. Il portiere era sempre stato taciturno ma in continuo movimento, ed era raro rientrare a casa senza trovarselo letteralmente tra i piedi. Fissandosi i piedi, i suoi grandi e lunghi piedi, si ricordò della prima volta in cui aveva incontrato quest'ometto piccolo, a partire dalle scarpe, una mattina che si avviava al lavoro a testa bassa e aveva appunto visto, come prima cosa, i piedi piccini e svelti di quell'uomo che aveva appena cominciato a lavorare nel loro palazzo. Scontrandosi distratto e quasi calpestandolo. Nel cortile del palazzo ormai avanzava solo l'edera.
Aveva perso l'abitudine di chiudere la porta di casa da molti mesi. Non serviva più a nulla: e lasciarla aperta gli dava la sensazione che potesse accadere ancora qualcosa di inaspettato, qualsiasi cosa non si potesse programmare e attendere in modo identico un giorno dopo l'altro. Era a causa di una porta dimenticata aperta che una sera era entrata l'ultima donna di cui si era innamorato. Ossia, l'ultima donna. Cenò usando gli ultimi piatti puliti che riuscì a trovare, seguendo distrattamente la fine di un vecchio film di cui non era più necessario ricordare la trama. Era domenica, il giorno in cui in televisione ancora passavano film in bianco e nero del periodo d'oro di Hollywood. Il giorno dopo avrebbe dovuto ricordarsi di ricominciare la settimana lavorativa.

Eppure aveva ancora quelle abitudini della vita di prima. Dormiva con gli stessi orari. Puntava ogni giorno la sveglia, o meglio, ogni giorno feriale. Anche la mattina dopo, al suono familiare della sveglia, spalancò gli occhi come se quel suono potesse ancora sorprenderlo. Erano le cinque, aveva tempo per tutto, eppure si dava fretta da solo, senza ansia, senza fastidio, con il semplice piacere puro di chi ha ancora qualcosa da concludere.
Si alzò dal letto lasciandosi dietro i resti dell'umidità notturna. Non aveva più senso accendere il condizionatore, con tutta l'aria che poteva circolare dalle finestre e porte spalancate, ma la temperatura continuava a salire, e le lenzuola al mattino erano spesso bagnate.
Fece ogni cosa come al solito, come se continuasse ad avere un senso: farsi la doccia, radersi, profumarsi, vestirsi. Scelse perfino una cravatta, come ogni giorno, nonostante poi ogni sacrosanta volta arrivato in ufficio si rendesse sempre conto di aver faticato moltissimo lungo la strada per non togliersela. In ufficio riusciva a sopportare la temperatura, lì la profondità era ancora l'unico modo di sopravvivere all'assenza di aria condizionata. Ma per strada ogni singolo giorno malediceva il senso del dovere, di quel dovere reso inutile dall'assenza di testimoni.
Scese nel garage e nel buio dal sapore di muffa un tremito delle mani riuscì a turbarlo al punto da far cadere in terra le chiavi della macchina un paio di volte. Fu costretto a poggiare la valigetta sul cofano dell'auto per cercare il mazzo di chiavi tra le ruote e sotto il paraurti. Senza sapere il motivo di quella strana agitazione, rimase immobile qualche minuto, una volta entrato in auto, prima di accendere il motore e uscire dal parcheggio. L'agitazione svanì al secondo incrocio, al secondo di tutta la serie di incroci a cui continuava ligio a fermarsi pur sapendo che avrebbe sempre trovato la strada libera per l'immissione.
Non c'era traccia del sole che gli aveva scottato la schiena lungo la passeggiata di piacere che si era concesso per tornare a casa la sera prima. La città era ancora buia e l'umidità non ancora evaporata gli affannava il respiro. Non poteva essere solo l'ansia che gli era partita dalle dita.
Al semaforo rosso si fermò a pensare all'eventualità di cercare il paio di chiavi di riserva che sicuramente doveva aver conservato nel cassettone in camera da letto. Non gli balenò nemmeno un attimo in testa l'ipotesi di disfarsi dell'automobile, data la breve distanza tra casa e ufficio. Era uno dei ganci che continuavano a trainarlo in una parvenza di normalità: e forse, detto tra noi, fare ogni giorno quei pochi passi a piedi nel silenzio dei palazzi avrebbe rischiato di generargli disorientamento.
Allungò il percorso di un paio di chilometri per raggiungere il distributore di benzina, anche se continuavano a chiamarsi così pur distribuendo ormai solo quello strano surrogato di carburante che negli ultimi anni di vita globale era stato generato dal riciclo degli ultimi rifiuti. Di quelli, ce n'erano sempre stati in abbondanza, e i distributori self service garantivano rifornimento praticamente illimitato. Fece il pieno, poi ripartì, badando di non superare i limiti di velocità dei centri abitati: d'altro canto, a voler essere pignoli, la legge non aveva mai precisato come, quanto, o quando abitati. Il rumore placido del motore sembrava suggerirgli sempre la cosa giusta da fare.

Arrivò al Palazzo di Controllo, facendo il giro fino al retro per parcheggiare nel suo posto, quello assegnato da quando era stato assunto quattordici anni prima, in un periodo di traffico così intenso che a volte era necessario litigare nonostante il posto fosse suo di diritto.
Entrò nel grande e lucido edificio, fatto di specchi e di corridoi con l'eco. Timbrò il cartellino senza fretta, poi si diresse verso l'ascensore. Durante quei dieci piani in discesa verso il buio continuò a pensare a quello strano tremito e a come disfarsene. Di fronte all'uscita dell'ascensore, si fermò qualche istante a frugare nelle tasche per cercare le monete giuste, e al distributore automatico proprio in fondo al corridoio prese una cioccolata calda per cominciare la giornata con le mani piene e la bocca dolce.
Con calma si avviò alla sua stanza, di fronte all'ascensore e all'inizio dello stesso corridoio. La porta della stanza doveva essere sbattuta per il vento, perché era stranamente socchiusa. Entrò e controllò rapidamente con lo sguardo tutto quel che gli capitò sotto gli occhi. Tutto uguale a come lo aveva lasciato venerdì sera. Appoggiò la valigetta sulla scrivania, facendosi spazio tra tutti i dischi esterni ormai in disuso, che aveva rottamato nel corso delle ultime settimane. La aprì e ne estrasse le carte necessarie a cominciare la giornata. Il computer acceso continuava a distribuire dati, come era giusto che fosse.
Lo schermo era andato in spegnimento automatico. Con le carte in mano, l'uomo si avvicinò alla scrivania e lo riaccese, per poi prendere posto sulla sedia girevole.
Un piccolo minimale riquadro sullo schermo dichiarava:
TERRITORIO MONITORATO 28%
TEMPO RESIDUO STIMATO non disponibile
VITA UMANA 0

L'uomo riprese a sorseggiare la cioccolata calda badando di non sporcare le carte estratte dalla valigetta.
La settimana era appena cominciata.

(da un'idea di Roberto Sidoti)

Resti, 05/05/2014 - 09:58

L'ultima volta che ti ho visto eri sul mio letto ed eri leggerissima. La cosa più pesante erano le tue lacrime mentre cercavi di raccontarmi una frazione delle tue angosce.
Avevi sospeso il tempo, ritagliandolo solo per te e me, fino a notte fonda, finché la notte non è affondata sotto tutte le parole che sono sbucate fuori. Eppure ne ricordo pochissime. Ricordo che avrei voluto aggrapparmi in qualche modo alle tue guance per rassicurarti, con la stessa testardaggine con cui ora vorrei esserci, e non trovo il modo, non ne conosco uno valido.
Quella sera eri come trasparente. Vestita di nulla, scura e riccia. In fondo eri venuta a cercarmi. Mi ha assalito la paura di saper esplorare le tue.
Ho avuto timore di toccarti e non trovare per te una stretta che non finisse per essere una morsa.
Prima che te ne tornassi esausta a dormire nel tuo letto, avrei voluto a disposizione un modo, uno qualsiasi, per farti sentire il bene che ti volevo, un modo intimo come il sesso e rispettoso come il silenzio, un modo definitivo e totale, avrei voluto poter fare l'amore con te senza toccarti, perché passasse l'affetto e non si confondesse col desiderio.

Catemera, 14/03/2014 - 08:34

Entrai nella stanza senza sentimento. Io, senza sentimento; la stanza e chi la abitava, uniti dalla stessa passeggera assenza di sentimento.
Le mie scorte di sentimento si erano inutilmente esaurite nell'arco di tutta la notte, per scoprire soltanto, una volta di più, che sono fin troppe le persone che non considerano il sesso qualcosa di speciale, un modo per comunicare e scavalcare strati. E che quando invece ne trovi una, in qualche modo è necessario rispondere a quel contatto e nutrirlo.
Entrai nella stanza accanto a quella dov'era il letto come in una scena di un film, con una coperta avvolta addosso, ma non per quel ridicolo pudore di cui si vestono i personaggi dei film quando si riparano dallo sguardo della persona con cui hanno scopato tutta una notte. L'unico pudore che mi appartiene è quello del dolore, e di quello ero ricoperta su tutto il corpo. Avevo bisogno di nasconderlo, con la scusa del freddo.
Ero in debito con lui. Dovevo regalargli qualcosa di speciale, e avrei fatto in modo da impiegarci tutto il giorno, per scontare tutta la notte. Mentre lo guardavo fare colazione capii quale sarebbe stato il modo.
- Vuoi anche tu del caffè?
- Sì, grazie. Lascia, faccio da sola.
Il censimento delle sue ossa a contatto con le mie era ancora fresco nella mia testa mentre finivo di bere accanto a lui.
- Voglio fare un patto con te.
- Di che parli?
- Tu ieri sera mi hai chiesto di raccontarti qualcosa di me e io non ero pronta.
- E ora è cambiato qualcosa?
- Ora mi va di raccontare.
- E quale sarebbe il patto allora?
- Ci sono cose che non riesco a scrivere. Se riesco a raccontarle ora, le scriverai tu. Ti dirò tutto, ma poi dovrai scrivere questa storia a modo tuo.
Non sorrise subito. Cambiò sedia, per sistemarsi di fronte a me, e non accanto. Avvolse con le sue lunghe dita la tazza ormai vuota di latte ma ancora calda, suppongo per goderne il calore.
Con lo sguardo perso verso la finestra chiese in un sussurro:
- Dopo starai meglio?
- Lo spero - risposi.
Allora finalmente mi sorrise dritto negli occhi, alzando l'altra mano per indicare un punto dietro di me.
- Passami quella penna.

Catemera, 13/03/2014 - 08:43

Pretend, please, just for a moment, you could say the words coming up from your soul to everyone. Imagine, pretend they could reach anyone. Act as if you were invincible, unbreakable, eternal. Look at yourself as if you're playing some role, maybe weird, but still a role. Behind the role you're not safe, you know it, don't you? Now you can tell him you love him, you can tell her you love her, you can choose not to talk to him, you can be whatever you want. You have to know I am here to protect you, because we are two but I am part of you, and I want to survive as much as you do. Talk to me and tell me everything you want to say to everybody else. Because I heard you crying, and it hurts me. Any bloody word you're not saying now will dig a wound deep inside of you. Don't let yourself do this, again. I'll promise your words are not going to hurt anybody, even if you eventually shout them out. You once wrote I love you, whoever you are, wherever you are. I'll never stop loving those words. I know you need somebody to love, but unless you get in your mind the person you're waiting for is you, you'll never find someone else who will really do.

Catemera, 07/03/2014 - 21:38

Mi addormentai sbagliando, perché non avevo con me i motivi giusti.
Avevo tutto quel daffare con le date ricorrenti, le persone che si somigliavano, i volti che mi ossessionavano. Non dovevo dormire, non avevo sonno ed era il momento meno opportuno della giornata. Volevo solo liberarmi delle ricorrenze.
Era un pomeriggio poco obiettivo e con troppa luce sul letto. Francesco, un elemento del gruppo dei volti ricorrenti, cominciò a parlarmi nel sonno senza avere prima la cortesia di apparirmi con un qualsivoglia aspetto.
- Lascia stare queste carte... vuoi darmi una mano?
Dio sa cosa significasse. Francesco aveva il capello più spettinato e svolazzante del solito ed era seduto ad un tavolo da disegno, ma senza disegni sotto le mani. Mi parlava tranquillamente come se il tempo non fosse mai passato, il tempo con tutte le sue cicatrici o meglio ancora prima con tutte le sue ferite. Era un'immagine di lui diversa dal solito quella che mi si era formata in sogno, inusuale eppure verosimile.
Il sogno andò avanti per un po'. Occupavamo dello spazio comune, e la presenza di sole e caldo mi distraeva da qualsiasi altra considerazione sul significato delle nostre azioni. C'era solo tempo che si faceva trascorrere senza volontà.
Quella notte feci molti altri sogni, troppi. Decisi di non ricordarmene il contenuto, ma mi fu impossibile dimenticarne l'atmosfera e la sensazione di benessere che mi avevano lasciato. Nonostante la certezza che non fossero sogni piacevoli. Andò avanti così per molto tempo.

Il giorno dopo affrontai una piscina pubblica priva di vasche più profonde della mia altezza. Uno spazio enorme e pullulante di persone, tutte giunte in gruppi, come fossero gite organizzate, di quelle a pagamento. Non sapevo a quale affiancarmi e però tutti sembravano avere uno sguardo affettuoso per me. L'acqua per una volta non era elemento disturbante e nemmeno la folla. Nella mia pazzia, cominciai a chiedere di Francesco, come se potesse esserci connessione tra i sogni, vittima di quella mia remota infantile teoria secondo cui c'è un altro mondo completamente parallelo e congruente, nei sogni, e non mondi casuali che si dissolvono al risveglio. A volte mi era riuscito di collegare sogni fatti in precedenza e di muovermi tra un ambiente e l'altro. La gente che sguazzava in questa piscina bassa ovviamente mi guardò con compassione.

Per tutti i giorni successivi, mi svegliai sempre stanca e sentendo il peso della realtà. Quella in cui non riuscivo a dirigere gli eventi e determinare la direzione di ciò che mi circondava. Ritrovai per caso brandelli di conversazioni con Francesco che mi trasformarono stupidamente la percezione di ciò che avevo visto di lui in sogno giorni prima. Passai giorni, forse intere settimane, a cercare di adattarmi al mondo vigile dei cui ingranaggi non ero padrona. Nel tentativo di isolarmi sempre più, presi a dormire con le persiane chiuse, come mai avevo fatto in vita mia, per violentarmi col buio ed il silenzio della mia testa spenta. Poi, l'ultima notte, nell'ultimo dei sogni, vidi Francesco riporre tutte le sue carte in silenzio, senza accorgersi della mia presenza, o forse proprio in virtù della mia assenza dalla scena. Lo vidi cambiare lineamenti più volte, per fare il giro completo delle mie ossessioni. Raccolse le sue cose e si richiuse la porta alle spalle. In quel momento qualcosa mi accecò riportandomi alla realtà.
Era notte fonda e un fascio di luce attraversava le persiane.
Costretta ad alzarmi per aprirle, risposi alla chiamata intavolando un lungo silenzio con la luna piena.

Resti, 12/01/2014 - 10:17

Esce di nascosto sul balcone per vedere chi è che ha fatto rumore spostando le sedie sul terrazzo.
Sono io quella che ha fatto rumore. Non si trattiene: "Dio mio come sono diventati lunghi i tuoi capelli". I miei sensi rispondono con un "se fossimo ancora amici potresti perfino toccarli" ma la mia immaginazione si ferma sulla soglia del dolore, perché non siamo più amici da così tanti anni che nemmeno ricordo il conto totale. Non mi ha rivolto la parola ed è meglio così.
Poi, solo qualche minuto dopo ha già cambiato volto nome e storia, mentre ne sfoglio le foto, non foto con lui dentro ma foto scattate da lui, sempre lontano, sempre estraneo, sempre non più amico: non è più sul mio terrazzo o sul suo balcone ma solo nella mia testa, è lui che mi ha insegnato a innamorarmi delle mie foto, dopo che lo avevo fatto con le sue. "Nemmeno tu vuoi toccare i miei capelli? Tu lo facevi. Amavi i miei capelli e la mia bocca.". Ora i miei capelli sono più morbidi e la mia bocca più dura, se li guardi insieme. Devi saperlo che i miei capelli possono diventare più crespi e la bocca si fa facilmente sciogliere, altrimenti ti fai ingannare: lui lo sapeva e superava il test ogni volta. Il riassunto di quel che sento di lui e per lui sono una mano piatta sulla gola e l'altra sulla nuca con le dita ben incastrate nei capelli, strette forte dentro ai ricci per non farli scappare, e qualche decibel molto basso in un orecchio.
Sono sempre riuscita a sentire tutti i suoni troppo bassi per gli altri, ma devo ancora imparare ad ascoltare le parole troppo forti per me.

Catemera, 22/09/2013 - 10:16

Lavorare sui treni non è facile. Quando tu rappresenti qualcosa, e questo qualcosa funziona male, i ruoli come il mio sono ancora più pesanti. Siamo sotto pressione e siamo il bersaglio dei viaggiatori infuriati per disservizi e ritardi. Nei posti del sud poi io mi sento ancora più sotto pressione, perché sono omosessuale, sì, ora si dice gay, poi perché non sono giovane, e infine perché mi si leggono entrambe le cose in faccia. Per la gente ignorante o superficiale io sono qualcosa di ben definito, qualcuno da additare, se non addirittura da deridere o commiserare. Oh, beninteso, non lo fanno: faccio pur sempre il controllore, sono qualcosa che somiglia a una giustizia. Che io sia... una vecchia checca, o ricchione, come ho imparato a sentirmi definire al sud, possono solo pensarlo. Odio la volgarità di questi termini, ma ho imparato a farmeli scivolare addosso. Oh, nessuno me lo ha mai detto in faccia, finora, non in treno. Io rimango gentile e cordiale, severo se serve, mai ciecamente fiscale: in tanti anni di viaggi sui treni di tutta Italia ne ho viste così tante che con l'età mi sono ammorbidito, come è giusto che sia e come dovrebbero capire tante persone, giovani e non. Ma questa non mi era ancora capitata, e quel che ancora non mi era capitato non è una sola cosa, ma un insieme di eventi scaturiti tutti dalla stessa persona. Stamattina, treno metropolitano, percorso breve, molte fermate. Poca gente, molti giovani. Beh, quelli che per me sono giovani, ossia fino ai quarant'anni. Questa ragazza, sola nello scompartimento, era di età indefinibile, venti come quaranta, quindi comunque giovane per me. Non che ci sia molto da dire, ma sono quelle cose per cui ancora posso dire di amare il mio lavoro, quelle cose che danno un senso a tutto, ben più che alla singola giornata. Questa ragazza mi attirava, ed è la prima cosa strana, perché a me piacciono gli uomini: ma aveva contemporaneamente qualcosa di molto femminile e molto maschile, e ora non mi interessa identificare cosa dell'una e cosa dell'altro, ma mi piaceva. Non era androgina: era proprio nettamente l'una e l'altra cosa. Mi piaceva nella sua totalità. Questa ragazza piangeva, e questa non è una novità nella mia storia di controllore. Ma piangeva come un uomo, senza piangere. Lacrimava a muso duro. Piangeva come ho visto piangere solo gli uomini, fiera e sola, anzi, solo gli uomini di una certa età, tipo la mia. Ho pensato d'istinto non ho mai visto piangere un uomo in un mio treno, poi mi sono corretto per l'errore. Ma in un certo senso non era un errore. E non potevo comportarmi affettuosamente come con una ragazza, perché mi sarebbe sembrato fuori luogo. Sarei voluto andare da qualcun altro a controllare il biglietto, ma il vagone dove era salita era completamente vuoto. Non potevo sviare, far finta di non averla vista. D'altra parte mi aveva notato e aveva già tirato fuori il biglietto. Poi è successa questa cosa, quest'altra cosa che non mi era mai capitata. Mi ha accolto. Prima che arrivassi accanto al suo posto, si è protesa verso di me, inclinando un po' la testa da un lato, allungando quel braccio magro, muscoloso e abbronzato con cui mi stava porgendo il biglietto. E nel fare tutto questo, nel continuare a piangere, mi ha regalato il più bel sorriso a occhi lucidi che io abbia mai visto. Quegli occhi azzurri, o forse verdi, o forse di entrambi i colori, completamente invasi dall'acqua mi guardavano, mi chiamavano e mi rassicuravano di non essere invadenti con un sorriso. Mai mi era capitato di vedere solo gli occhi, in maniera così intensa. Ogni volta che ci ripenso, tutto il resto scompare. Non ho fatto niente. Ho restituito il sorriso, fissando a lungo tutta quell'acqua intrusa, piazzata là a separare i miei occhi dai suoi, a proteggere i suoi occhi dai miei. Ho finito il giro di controllo con la sensazione di avere le sue lacrime addosso. Ho cercato di ricordare se mi fosse mai capitata una cosa del genere, e ho pensato di raccontarla al collega capotreno: poi ho rinunciato, temendo di esser preso per un vecchio pazzo visionario o un contapalle romantico. Forse è vero. Forse sono proprio una vecchia checca romantica, e me lo sono immaginato per avere una scusa per raccontarlo. Per raccontare delle mie debolezze e dell'unico ragazzo che io abbia mai visto piangere e sorridere in treno. Ops, chiedo scusa.

Resti, 20/06/2013 - 10:34

to love more, or maybe less, to laugh at people using own eyes, to hate until you hurt and not just until you get hurt, to touch and to press more and more, so that maybe something will stay imprinted in your fingertips the day he will never be with you anymore, to drive as you could tear your skin apart yet you could learn in a moment how to rule your tense muscles, to jump on the elevators while they're going down and to run the stairs up, to give hugs starting from the neck, to lift weights and mostly not measured in grams ones, to sleep supine, then not, then yes, then stretch your hands over though nobody is there on the other side, to deal with hardships as if there weren't any other, but above all to scream outside and not inside, because the inside screaming can break everything, whereas the outside just breaks silence [italian was here]

Catemera, 13/06/2013 - 19:49

Odio l'invenzione del nome e cognome. Per me le persone sono un nome, una parola, un concetto, niente che le racchiuda ma qualcosa che le identifichi. Quando dico il mio nome, se è troppo comune per l'interlocutore, mi chiede anche un cognome per non confondersi, io non posso fare a meno di pensare che non sarà il cognome a distinguermi e allora gli rispondo con un tono inutilmente sgarbato. Poi finisco per pontificare, come faccio con tutti, come ho appena fatto col mio agente per cambiare argomento e non dar retta alle sue lamentele.
"Allora siamo d'accordo, va bene". Come no. Non va bene niente.
Ho deciso che non ci sono per nessuno. Chiudo la telefonata con un gesto rabbioso, lo stesso che mi scuote la testa come farebbe un cane inzuppato, nella speranza di veder schizzare la rabbia sulle pareti. Dovrei mettermi a pensare al mio nuovo romanzo ma non riesco a immaginare nemmeno cosa potrei cucinare per cena.
Mi fa sempre le stesse critiche, lui, lancia queste accuse perfettamente fondate ma inutili, perché alla fine il succo della questione è che non so scrivere. Ovviamente la sua è semplice onestà, la mia pura vigliaccheria. Passo giornate intere a fantasticare su cosa vorrei dalla vita, facendo quel che romanticamente potrebbe esser chiamato sognare a occhi aperti, immaginando tutto quello che non ho: il sesso con la donna giusta, i viaggi senza meta con gli amici e perfino la sequenza nelle pulizie di casa. Ma è qualcosa che mi rimane incollato e non contagia il mondo esterno. Se provo ad oltrepassare il mio stesso muro e immaginare i pensieri della gente, le scelte, le azioni, gli errori, rimango chiuso su questi ammuffiti pensierini delle elementari, e perdo tutta la profondità di cui so di essere capace.

Mentre mi ripeto che non voglio esserci per nessuno squilla di nuovo il telefono. Lei non dovrebbe cercarmi ma di fatto non si arrende, e ammetto di esercitare una resistenza che è pura facciata. Vuole vedermi, sai che novità. Non ho alcun rancore nei suoi confronti, ma so che è una scelta sbagliata. Lei è sposata, e innamorata.
Anche di me.
Non è nelle mie facoltà giudicarla, non più di quanto possa giudicare me stesso per il non essermi frenato prima che tutto degenerasse.
Qualche anno fa, quando l'ho conosciuta, pensavo che le occasioni perfette al momento sbagliato capitassero, amara coincidenza, solo nei libri, quelli che per l'appunto non ero in grado di strutturare, quelli che non ero capace di scrivere, o meglio, di portare a termine.
Forse fu un inconsapevole esperimento che mi indusse a rivolgere la parola a questa sconosciuta che era rimasta sola al tavolo accanto, nel pub. Me ne sto rendendo conto solo ora, ma una parte di me è riuscita ad accettare l'idea che ci fosse questo stupido scopo dietro quel tentativo di contatto.
Aveva litigato col suo uomo, ma non sembrava nulla di grave. Sembrava uno sfogo causato da accumulo di stress, era stato violento quanto breve: poi lui si era alzato per andare a pagare il conto e sempre con quel tono calmo ma saturo era tornato al tavolo solo per comunicarle la sua intenzione di tornare a casa. Non era stata una grande scenata, volgare o brutale: tutto comprensibile e a portata di orecchio, però. E che avessi il desiderio di inventare una storia vivendola, come dicevo, ho finito per ammetterlo, ora. Ma in quel momento non me ne rendevo assolutamente conto.
Quindi, sì, ammetto che la storia tra me e lei, mai formalmente consumata, mai accettata, è cominciata perché avevo bisogno di scrivere qualcosa di verosimile, perché avevo voglia di vivere tutti i passaggi, e perché credevo di non essere tanto disonesto ad approfittare di una situazione che sembrava premessa di una rottura.
Ovviamente mi sbagliavo su tutti i fronti. Non sarei mai riuscito a usare la nostra storia per un romanzo, non sarei mai stato con lei perché la sua storia non era fragile, e poi, in fondo, non era la persona giusta per me come credevo. Non ci avevo mai pensato, ma lei è una persona che non sorride quasi mai. Come avrei potuto amare una persona che non sorride quasi mai? Come faccio, ad amare. Una persona che non sorride mai.
Ma sono dettagli. Lei è la persona giusta perché il suo comportamento è stato quello che mi sarei aspettato adottasse con me, se fossi stato io il suo uomo. La sua scelta è stata quella che racchiudeva in una sola azione rispetto, amore, ragione e onestà. Se io fossi stato l'uomo che quella sera la lasciò a quel tavolo, sapendo tutto quello che quell'azione avrebbe generato... no, lo avrei fatto comunque, per sentirmi amato da quella scelta, molti mesi dopo.

Mi sto distraendo a ricordare quella serata. Non importa com'è iniziata, importa che non sia finita. Importa, o almeno importa a me, che siamo riusciti a superare la soglia del consentito, di quel che ciascuno di noi avrebbe consentito all'altro se fossimo stati insieme, intendo insieme non ad altre persone. Non ci siamo concessi di incontrarci in quell'albergo a centinaia di chilometri da casa, dove casualmente ci trovavamo entrambi per motivi diversi. Non ci siamo concessi altro sesso che quello parlato, al telefono, fino a notte fonda, quando io lavoravo ancora in agenzia e rimanevo in ufficio fino a tardi a programmare. E non era quello che troppo comodamente viene chiamato sesso virtuale: era parlare di noi, era prepararci a stare insieme, anche se sapevamo che non sarebbe mai accaduto. Rimanevo nell'ufficio svuotato con la scusa di proseguire nel lavoro ma in realtà aspettavo che lei comparisse per svuotare il mio cassetto di confessioni, e scambiarle con le sue. Non ci siamo concessi altro che un contatto carnale ma casto, quella volta che ci siamo rivisti, in mezzo ad altra gente ad una festa di conoscenti comuni, ed era già tutto degenerato in una misura che non permetteva ipotesi alternative. Ci attaccammo, premendoci corpo contro corpo, pelle contro pelle, odore contro odore: ma se qualcuno ci avesse visto avrebbe solo pensato che eravamo stretti nella fila di gente che stava uscendo sul terrazzo per brindare al festeggiato.

Ora mi ha chiamato perché facciamo finta di essere in pace. Ah, no, lei non fa finta. Io sì.
E infatti ho accettato di vederla. Ho accettato di aspettarla alla fermata della metropolitana per farci insieme sempre quel solito lungo tratto di strada che una volta facevo da solo, quella che mi portava al Quirinale, per poi scendere le scalette e trovarmi giù, nella stradina che passa davanti all'ingresso, e infine arrivare, quasi in fondo alla discesa, al portone dove c'era quel buco che chiamavo pomposamente ufficio.
Che poi, scalette: scale, scalone. Su quella scala sono scivolato rovinosamente quel giorno che sono tornato sotto la pioggia dal tradimento inutile. L'avevo tradita per rabbia, ma come si fa a tradire una persona che non si possiede e per la quale il mio non sarebbe mai stato vissuto come un tradimento? Sto divagando. Questa sarebbe un'altra storia.
Ora, ho accettato di andarla a prendere alla fermata tra mezz'ora, lei avrà la bici ma come sempre non la userà, perché cammineremo lentamente fino alla piazza. Ci fermeremo a guardare il panorama mangiando qualcosa che avrà portato, qualche dolce fatto da lei, quelli che cucina solo per gli ospiti, i vicini in tutto il palazzo e me: il suo uomo non ama i dolci.
Mi racconterà cose nuove come fossimo davvero l'uno il migliore amico dell'altra, come se potessimo dirci tutto e aspettarci tutte le critiche e i consigli del mondo. Sarà piacevole fintanto che non le farò notare che per me non lo è del tutto, e so che non lo farò, perché non voglio perderla. Non sono ancora pronto a sostituirla con l'amore vero a cui credo di aver diritto.

E così è andata. Avanti, dovrei andare avanti: sia in senso metaforico che letterale. Dovrei evitare questi incontri, perché mi lasciano legato a lei. Cosa dicevo all'inizio? Che è ancora legata a me? Sbagliato: è innamorata di me, ma non se ne rende conto. Io sono innamorato di lei, ma me ne rendo conto, quindi io scelgo di rimanere legato, lei si lascia trascinare dai sentimenti senza prendere atto del legame. Pure considerazioni filosofiche: dovrei andare avanti, ma in direzione contraria. Perché continuando a camminare nella direzione in cui lei procede con la bicicletta finirò per allontanarmi dalla fermata della metropolitana. E dalla scelta giusta.

Per cui, ora attraverserò la strada, costringendomi a non girarmi per non vederla scomparire dietro l'ultimo angolo visibile. Mi appoggerò al muro del primo palazzo che incontrerò, con la faccia sull'intonaco e il grillo parlante che mi rimprovererà per l'ennesima volta, perché la strada è sporca, i palazzi sono sporchi, la gente attorno è sporca e sicuramente ad appoggiare la guancia al palazzo in questo modo rischio di prendere un'assurda malattia. Ma questo grillo parlante ormai si è fatto vecchio. E allora continuerò a schiacciare questo mio muso indurito sulla strada. Lo farò ad occhi chiusi, per far passare qualche istante. Quando li riaprirò per provare a guardare l'orologio e verificare se sono in ritardo per l'ultima metropolitana, scoprirò sicuramente che si è fermato.

Resti, 10/06/2013 - 10:42

Alle assenze mensili ho reagito, cantando e sfogliando controcanti su tutte le canzoni che potevo sperimentare; di notte, forse, col sonno e più spesso senza, la musica cessava e qualcuno rispondeva alla mia voce, e non avevo tempo di notare che anche le risposte venivano dalla mia voce, benché fossero per l'appunto risposte, non necessariamente soluzioni. Quelle assenze erano mute come silenzi anche se riempite da rumori. I rumori ce li mettevo io, li usavo come un metronomo, combinandoli con le pulsazioni, col respiro, con le ipotesi di vendetta.

Dice che il dolore autoinflitto è quello più sicuro, più facile da smaltire, più rassicurante, più gestibile: non ti sei chiesta come io faccia a vivere in tua assenza, non me lo hai chiesto, non me lo chiedo altrimenti dovrei recuperare una risposta che ho diligentemente eliminato. Ripensandoci, tutte. Tutte le risposte.

I'm medicated, how are you?

Non sono guarito, sono soltanto medicato, dopo aver buttato in ogni apposito cassonetto ciascuna parte marcia.
Ora vorrei soltanto andare avanti, smettere di immaginare le tue dita sottili abbinate alle tue vene, smettere di far finta che tu non sia stata bella quanto io avevo sempre desiderato.
E poi vorrei crescere, cioè smettere di odiare come difesa.

Catemera, 05/04/2013 - 17:04

In piedi, appoggiato alla parete del treno, nonostante il freddo ho fatto una corsa per non rimanere chiuso fuori, e ora ho il fiato corto e il caldo accumulato mi gonfia le vene. Rimango a fissarle ipnotizzato come sempre. La potenza del mio sangue è la stessa della mia voce, e della mia durezza maschile, che notano tutti i passeggeri, quando un paio di minuti dopo, in ritardo, siamo ancora fermi, e inveisco contro il capotreno, attirando l'attenzione di tutto il vagone. Fossi stata femmina il mio tono sarebbe stato mangiato dal volume.

La pioggia ha smesso di disturbare, lasciando i tetti di questa città bagnati e lucenti sotto i raggi di un sole riemerso. Mi lascio accecare, non solo gli occhi. Il primo tratto percorso sui binari, all'uscita dalla stazione, accarezza piano il panorama sul mare più noto del mondo, le sue isole, le luci, dandomi il tempo di intrufolarmi nelle case, nei balconi, nelle storie, in tutte le attese inutili. Accanto ai tetti gelatinosi, riflette il sole una piscina piena di acqua, verosimilmente solo piovana in questi duri giorni d'inverno.

Quando mi ritrovo ad essere parte di una città, scruto gli occhi della gente sentendomi invisibile e sperando di rimanerlo, per trattenere i pensieri dentro di me mentre metto a disposizione, di nuovo, ancora, parte di questo sangue orgoglioso che non scorre, ma si fa scorrere.

Catemera, 16/01/2013 - 21:54

Ventisei dicembre
 
Ore 10.14
Ci sono dappertutto nuvole con i bordi oscenamente netti, come tagliati da un rasoio: non le capisco. Sembrano incise di fresco e lasciate così affilate per poter ferire qualcuno. Me di sicuro. Si potrebbe prender la matita e disegnarci il contorno; anzi, ora prendo la matita e lo faccio.
Un uccello piccolo e nero inganna il mio senso della prospettiva spacciandosi per un falco e ricordandomi che non posso. Non ho matite, nella borsa, solo penne, stavolta, non come al solito, con la scatolina di mozziconi quasi finiti: e con la penna rischierei di sbagliare e non poter cancellare. Devo rifare tutto da capo.
 
Ore 13.14
Il mio sguardo è fisso sul vetro del treno, metto a fuoco la finestra e non quel che c’è fuori, lo faccio spesso. Poi il movimento risveglia i miei occhi ciechi, è il controllore che scruta per l’ultima volta i vagoni prima di risalire e far cenno di ripartire al compagno. Pochi minuti dopo è davanti alle mie sei poltrone vuote, beh, logicamente vuote a parte me. Come sempre, sorrido mentre gli porgo il biglietto. Come sempre, non alzo gli occhi verso i suoi, regalando gratis le mie labbra accomodate a sorriso. Ma stavolta, dietro il rifiuto dello sguardo, confesso anche la mia debolezza: non voglio incrociare i suoi occhi perché ho paura che non risponderebbero, e ho il terrore di non poterlo sopportare.
 
Ore 16.14
Tornando a casa sono quasi caduta, incespicando su alcune pietre smosse, sul vialetto. I bambini del piano di sopra devono aver di nuovo giocato a rincorrersi senza rispettare le regole condominiali. Ci ho messo qualche istante in più a infilare la chiave nella toppa, dopo. Non ho tempo da sprecare, ho pensato richiudendomi la porta alle spalle e intercettando in lontananza lo scalpiccio di quei sei piedini. Sei piedini che, evidentemente, avevano intenzione di sfruttare l’ultima ora di sole per sfogare la loro carica ormonale. Non amo i mocciosi. Non amo le persone in generale. Non a modo loro. Non come è opportuno che sia. Ho lasciato la borsa nell’ingresso e i vestiti in cucina, sebbene non ce ne fosse alcun motivo. In assenza di palazzi di fronte a me, mi sono presa la libertà di circolare nuda sul balcone, e sentirmi asciugare lentamente addosso gli ultimi sudori della metropolitana, prima di concedermi una lunga meritata doccia.
 
Ventisette dicembre
 
Ore 07.14
Mi sono svegliata in ritardo, e mi ha sorpreso, data la mia proverbiale puntualità; anche perché solitamente più che puntuale sono in anticipo, e non ho mai bisogno di sveglie. Ho cercato di ingannarmi tenendo gli occhi aperti nel vuoto nero della stanza ancora buia. Odio il buio, ma a volte mi piace sentirne la consistenza, invitandolo nella mia camera da letto a dispetto delle mie stesse regole.
 
Ore 12.14
La giornata mi è passata davanti senza particolari eventi da sottolineare. Sono seguace dell’equilibrio, degli equilibri, un rimprovero da parte di un superiore viene annullato da un sorriso non richiesto eppur gradito della donna delle pulizie; oppure il contrario.
Durante la pausa pranzo non avevo fame, ma voglia di camminare. Non abbiamo orari, il mio stomaco ed io, né misura. Per cui a mezzogiorno ho scelto di trascorrere tutta la mia pausa tra le bancarelle dei libri usati in piazza, davanti all’edificio dove lavoro. Anche se poi, come sempre, compro poco o nulla, e la cosa che preferisco è leggere frasi a caso per vedere che effetto mi fanno, per fantasticare sulla storia che le contiene. Le frasi decisamente interessanti finiscono nel mio taccuino delle frasi, che non sono propriamente citazioni, ossia paragrafi di senso più o meno compiuto pur se estrapolate dal contesto. Sono proprio fulmini senz’altro scopo. E non devono necessariamente essere romanzi, quelli da sbirciare.
Un libro mi ha invitato ad essere aperto a metà, oscenamente, in un punto in cui delle pagine si erano strappate. Ho indietreggiato di molto e ho trovato uno splendido “Ed eccola qui, ancora viva, e aveva quasi dimenticato che doveva morire”. Mezz’ora dopo, ormai senza più entusiasmo, un piccolo libro esteticamente inadeguato mi aveva consegnato un avvilente “Alla fine mio padre prese l’abitudine di uscire di casa la mattina come per andare al lavoro”. La rassegnata anormalità suscitata dal connubio delle due frasi mi ha impensierito, confesso, e mi ha accompagnato fino a sera.
 
Ore 20.14
Sbadiglio davanti ad una televisione muta, consapevolmente muta perché col volume ridotto a zero. Ogni tanto mi assopisco, e solo quando un’immagine curiosa attira la mia attenzione, accetto di ripristinare l’audio. Durante una pubblicità mi ricordo che ho comprato un libro, mentre mi stavo avviando in ufficio alla fine della pausa; un romanzo così malconcio che non ho voluto nemmeno sfogliarne le pagine per paura di perderne qualcuna. Lo apro verso la fine, o dovrei dire si apre verso la fine perché contiene una foto in bianco e nero di una bambina bruna in impermeabile; una bambina fragile in impermeabile galosce e cappello, come quello dei pescatori. Nella mia testa in una frazione di secondo quel completo diventa arancione, senza altro motivo se non un’associazione automatica con qualcosa che si è perso nei tempi della mia infanzia. Dimentico il libro e accomodo la foto accanto a me, sul divano.
 
Ventotto dicembre
 
Ore 03.14
Apro gli occhi con naturalezza, senza panico, senza affanno da incubi, come se semplicemente avessi smesso di tenerli chiusi. Ripercorro mentalmente le stanze della mia casa, appuntandomi di controllare qualcosa al mio risveglio o comunque prima di uscire per recarmi al lavoro. Salto di proposito la stanza dove c’è lo studio e mentre proseguo con la lista di cose da ricordare, mi riaddormento, dimenticandole tutte.
 
Ore 08.14
Prima di chiudermi la porta di casa alle spalle ritorno sui miei passi, rovistando sul divano. La bambina si era infilata tra due cuscini, ho appena il tempo di tirarla fuori che sento il pavimento tremare per l’arrivo del treno. Devo correre ma mi prendo il lusso di sfilare il portafogli dalla tasca dei pantaloni per riporre con cura la foto. Mentre salgo sul vagone, appena in tempo, per fortuna, a causa di un ritardo nelle coincidenze, comincia a piovere a dirotto.
Ore 15.14
Sono rientrata da poco in ufficio quando un collega mi chiede di sbrigare per lui una commissione che gli impedirebbe di finire la relazione da presentare nel pomeriggio. Acconsento perché mi permetterà di perdere più tempo del previsto, data la pioggia. Cammino lenta, riparandomi con l’enorme ombrello che lascio sempre, di riserva, in ufficio. A metà strada aspetto troppi semafori verdi, senza rendermene conto, perché una donna con un buffo impermeabile arancione all’angolo di una strada si ripara dalla pioggia insieme ai suoi cani, sotto un cornicione. Per qualche minuto, non so per quale motivo, immagino che sia una vagabonda e mi trattengo a stento dall’andarle a parlare, anche se non so assolutamente cosa potrei chiederle. Poi qualcuno mi urta, finita l’attesa del verde davanti alle strisce pedonali, e vengo praticamente trascinata sull’altro marciapiede dalla folla.
 
Ore 22.14
Dopo avermi tenuto compagnia per l’intera giornata, la bambina si è aggiudicata un posto nel mio archivio. Lei non sapeva che avrebbe fatto questa fine, eppure c’è arrivata. Il mio archivio composto di orfani è quasi inutile quanto il taccuino di anti-citazioni: servirebbe a darmi spunti per inventare storie, o forse a ricordarmi le emozioni che possono aver generato nei legittimi proprietari. È una vecchia scatola di sigari che mi sono fatta regalare dal tabaccaio sotto casa, è grande e leggera e ha un bellissimo cordino che si arrotola sul perno della faccia frontale: e contiene solo oggetti non miei, trovati sempre per caso, raccolti sempre di nascosto. La bambina senzacolore si accomoda sotto ad un fermaglio per capelli trovato una sera su una panchina, assolutamente inutile per una con i capelli a spazzola come me; e copre il programma di un teatro evidentemente troppo poco interessante per essere consultato più di una volta. Mi dimentico perfino dell’arancione immaginato.
 
Ventinove dicembre
 
Ore 09.14
L’ufficio è gelido. Qualche complicazione tecnica ha costretto l’amministrazione a rimandare la soluzione alla fine delle festività. Trovo assolutamente naturale andare in giro fra le postazioni dell’open space con il cappotto, anche perché posso usare la situazione come scusa per fermarmi qualche istante di più con i colleghi.
Di ritorno dalla macchinetta del caffè mi fermo alla scrivania di una collega giovane, appariscente, ingenua e tenace, appena entrata, che è arrivata troppo in ritardo per il maltempo, ma senza nascondere di essersi concessa una sosta in edicola. È con la sua nota e volgare prorompenza che si spoglia e si fa crollare sulla sedia, sbattendo sul tavolo le riviste che ha comprato, per l’appunto. Trotterello attorno al tavolo con aria annoiata per sbirciare, notando un periodico di arredamento: la fanciulla sorride immaginando ch’io condivida i suoi interessi, quando in realtà ho solo notato una foto di una libreria, in copertina, nella quale, come da abitudine, tento di identificare i libri sperando di conoscerli. Delusione: nemmeno chi ha allestito la stanza per la foto di copertina ha davvero buon gusto. Torno mogia alla mia scrivania finendo lentamente il caffè.
 
Ore 14.14
Il maltempo mi dà tregua. Anche lui sa che il silenzio dopo un rumore assordante viene ascoltato con cura. Sa che dopo avermelo reso impossibile, dovrò correre a scrutare i contorni del panorama e dell’orizzonte, per controllare se è rimasto tutto intatto. Appena sento che il sole è tornato, noncurante del freddo chiedo di uscire prima. Ho bisogno del mare.
In questo freddo contratto e stanco, ho solo bisogno di tornare a descrivere l’acqua del mare. Mi ricordo di dover tornare a casa solo quando, molti chilometri dopo, comincio a vedere l’acqua soltanto quando brilla sotto i lampioni del lungomare. Mi volto, e sulla strada di ritorno non c’è più nessuno.
 
Trenta dicembre
 
Ore 00.14
Il freddo della passeggiata mi ha immobilizzato. Il mare ha rimesso in moto i miei desideri. Il corpo e la mente però sono discordi, e la stanchezza non è bastata a rimanere a letto. Mi sono coricata troppo presto e ne subisco le conseguenze. È quando cominciano i film della notte che decido di non poterne più del letto e della testa che ha voglia di pensare e immaginare: mi chiedo, se ho sempre voglia di un mucchio di cose e le vedo perfino nei particolari, creando con la mia mente lunghe e dettagliate sequenze dei miei film, perché ritengo di non essere in grado di srotolare una storia di senso compiuto, per iscritto?
 
Ore 04.14
Gli ultimi film notturni mi hanno consigliato di provare a dormire. Non mi è chiaro a cosa servirebbe cominciare a dormire ora, ma se provassi a fare altro finirei per dare troppa importanza a questa lunghissima giornata, che invece deve rimanere completamente definitivamente crudelmente anonima.
 
Ore 18.14
Squilla il telefono. O meglio, preciso, squilla un telefono che riesco a sentire. Data la mia assenza dall’ufficio erano quasi pronti a spedirmi i vigili del fuoco, perché quella del pomeriggio è la prima telefonata a cui rispondo, dopo le numerose telefonate con cui speravano invano di informarsi sui miei movimenti. Buffo, i miei unici movimenti sono stati da una diagonale all’altra del letto, a parte un sogno in cui mi alzavo per andare a cercare qualcosa nel mio archivio, e finivo per inciampare e cadere lunga a terra. Ma forse non era un sogno. Troppe telefonate non sentite, troppo poche parole per scusarmi. Ma, giacché in quell’ufficio campo anche discretamente di rendita, posso permettermi delle scuse sommarie.
 
Trentun dicembre
 
Ore 06.14
Troppo presto per recuperare sul lavoro, ma non per uscire. Di treni ce n’è già tanti, per i pendolari, a quest’ora. Per tenermi sveglia, e per arrivare in orario, sono scesa tre fermate prima della mia, e ho fatto gli ultimi chilometri completamente a piedi. La periferia che sonnecchia non è così ostile come avevo immaginato. Ma ero comunque in anticipo, e senza stupirmi di me stessa mi sono diretta verso la parte alta della città, dove c’è il belvedere da cui è cominciata la mia storia con questa terra, dove nei mesi invernali non c’è nessuno prima dell’ora di pranzo.
Non mi sono accorta di esser stata vista; nascosta dietro la colonna dove ero andata a sedermi, rannicchiata per sentire meno freddo, mi immaginavo invisibile e al sicuro. E chi mi ha visto si accorge prima di me che i miei occhi hanno cominciato a piangere, senza chiedermi il permesso, senza aspettarsi una motivazione, senza controllare che ce ne fosse davvero bisogno. Io non ci bado, ma dall’esterno devo sembrar turbata, abbastanza per turbare un altro essere umano. Ricordo una mano tra i capelli, un calore non solo emotivo, una voce bassa fatta di parole lente e misurate, come se l’estraneo avesse il timore ch’io potessi farmi del male. Non ricordo dopo quante mie parole mi ha regalato l’ultima carezza.
 
Ore 11.14
La frenesia con cui ho cominciato a lavorare appena entrata sarà stata interpretata come senso di colpa. Pazienza se mi fa sorridere, e se non posso condividerlo. In mezzo a questo campione di umanità non ho il coraggio di formulare pensieri davvero miei, non ho le antenne per scegliere qualcuno su cui accampare diritti. Mi affido agli oggetti e ai movimenti per restare ancorata alla realtà, un minimo di più.
Mi passa accanto il mio capo, una donna sulla cinquantina che ha deciso di avere l’età in cui bisogna tagliarsi i capelli; mi è dispiaciuto quando l’ha fatto. Quella selvaggia rassicurante lunghezza grigia mi avrebbe affascinato, come mi affascinò molti anni fa una lunga sprezzante chioma grigioperla di una professoressa che purtroppo non fu mai la mia. Andavo nel suo studio con scuse stupide per adorarla a bassa voce, e pensare cose su di lei in sua presenza. Non so se abbia mai capito il potere che esercitava su di me col suo fascino e con la forza delle sue convinzioni, tra le quali questa di scegliere di conservare lunghi i capelli, anche se grigi, che indubbiamente le batteva tutte. Un potere solido e inutile, ma superiore a quello del mio capo; lei, come donna, per me semplicemente non esiste. Quando mi sfiora, passandomi accanto, come oggi, sento solo i secondi che ci vogliono a farmi ritornare distante. Sento solo il rumore dei suoi vani tentativi di incutere rispetto. Cancello subito eventuali residui di profumo, deodorante, cibo mangiato e bibite non finite che ancora la aspettano nel suo ufficio. Sento infine il mio buffo respiro di scherno a cui probabilmente lei non crede nemmeno.
 
Ore 17.14
Orario ottimo per staccare dal lavoro. Anche oggi orario casuale, in ufficio, ma non sono molti quelli che saltano la pausa pranzo quindi la mia offerta è sempre ben accetta. Orario incoraggiante. Il mare è ancora trasparente di residui di luce, ma la gente per strada può già evitare i tuoi occhi. Prima di rientrare in casa ho preso l’auto perché era assolutamente urgente che facessi il pieno, secondo i miei piani. Ho lasciato l’auto vicino alla pompa per entrare a pagare con il bancomat, e il ragazzo che mi aveva servito mi ha deliziato con un innocente ‘ciao’ che pareva sorridere autonomo, oltre le sue stesse labbra. Quando anche l’altro benzinaio, dentro, mi ha sorriso solo dopo aver guardato che faccia avevo, ho pensato per un attimo di fermarmi e dirgli tutto, e restare con lui a ridere e guardare la gente. Avrei voluto ringraziarlo ma non avrei saputo come spiegargli di che cosa.
A casa, prima eccezione alla mia regola ferrea, ho conservato nell’archivio la scheda punti che mi avevano fatto alla pompa di benzina. Non l’avrei mai usata, ma avevo bisogno del piacere che mi avevano dato quelle due persone solo guardandomi e decidendo di sorridere. Avevo bisogno di rimanere qualche minuto in più vicino a loro facendo finta di conoscerle e immaginandomi la prossima volta. La scheda, vuota, genuina e ignara, è finita sotto ogni altra cosa, come se fosse il primo oggetto raccolto. Insieme a lei un mozzicone di sigaretta, in realtà una sigaretta abbandonata precipitosamente, raccolto su una panchina, con cui ho voluto infettarmi prima di decidere di smettere.
 
Ore 19.14
Il mondo si prepara e io anche. Lui crede che lo stiamo facendo insieme.
 
Ore 21.14
Finalmente ho ricordato perché non dovevo entrare nello studio. Mi ero imposta di non vedere tutte quelle scatole piene fino all’ultimo.
 
Ore 23.14
Farò finta che scorra tutto come al solito. Sì, lo prometto. Accetterò anche di farmi ripugnare dai baci della vicina di pianerottolo che si ostina ad augurarmi quel buon anno viscido a cui non ho mai voluto credere.
 
 
Primo gennaio
 
Ore 01.14
Credo di preferire che la notte passi così, spogliata, ma solo dei miei vestiti. D’altra parte non ho avuto freddo nemmeno quando qualche giorno fa sono rientrata e ho aspettato nuda il momento opportuno per la doccia. E non devo dimenticare di spostare l’archivio dove avevo deciso, perché venga ritrovato subito.
 
Ore 02.14
Immagino che cominci a fare freddo con tutto aperto. Immagino che con il miscuglio di odori dei fuochi sparati sia difficile percepire il mio, e che qualcuno si allerti per tempo. Immagino che tra qualche ora me ne sarò andata e non potrò vedere le facce dei pompieri. Immagino che sarà un vero rompicapo risalire ad una sola identità, visto che negli oggetti che ho salvato ce ne sono più di mille. Le uniche cose rimaste intere saranno oggetti personali, così personali da non essere più di nessuno.
 
Ore 05.14
Finestre completamente spalancate e troppo pochi gradi, ‘buon anno’ è il primo vero augurio che mi faccio. Il fumo non è riuscito a soffocarmi ma la cenere comincia a seppellirmi. È ora.

Resti, 04/01/2013 - 00:13

Ieri notte, dal fondo del mio terrazzo, aspettavo di avere sonno, e per una volta mi sentivo orfana di segnali, quelli tipici dei miei mesi, quelli dovuti e attesi, alla fine dell'anno: quando mi sono girata a guardare la collina di fronte, tappezzata di pareti di pietra di case antiche, distratta, le luci si sono spente quasi tutte, quasi sincrone.

Quando mi riaccendo, la ragazza è al sole, come me, ma non aspetta come me.
Ha finito di aspettare. Le persone per lei sono ridiventate gente, e io non faccio certo eccezione: lei invece per me resta persona, femmina e donna, nonostante gli occhi abbiano perso colore, non meno dell'ultima volta che ne avrà dato ai capelli, o alle guance.
La luce in quegli occhi spenti recita a memoria tutto il suo passato, sgranando il rosario di un atto di dolore personale eppur poco originale.
Un ragazzo che aspetta di salire sul treno si accende una sigaretta, la guarda, non gliela offre. La ragazza si volta, chiedendosi se esista qualcuno in grado di ignorare le apparenze e applicare una pura umanità.
Io non fumo, figlia mia, ma ho una quantità di accendini che spesso offro e addirittura lascio ai fumatori. Non posso offrirti qualcosa da accendere, però. E mentre salgo sul mio treno, ti lascio perché devo, ma ti seguo nella tua voglia di una storia, di un inizio e soprattutto di una fine. Ti vedo parlare con qualcuno che credo tu conosca, perché inaspettatamente sorridi; e invece, quella donna si allontana e tu ritorni spenta.

Ora che non ce l'ho più davanti, quella ragazza senza fumo, rivedo mentalmente l'elenco incompiuto delle sue espressioni, gli sguardi non indirizzati a me, le occhiate lanciate per aria veloci e irrequiete. Prima l'ho sentito, che ogni volta che mi hai guardato avresti voluto chiedermi qualcosa, foss'anche solo quella fatidica sigaretta: mi spiace, non sono la persona giusta, e non solo per te.

Quando poi mi stendo sul sedile del vagone e separo definitivamente pensieri da emozioni, mi distraggo al punto da non rendermi conto di quanto poco ci voglia a riempire il treno, e solo allora comincio a registrare le voci e le disgrazie. È la seconda volta oggi, tra parentesi, che qualcuno accanto a me storce il naso schifato per il passaggio di uno straniero, o di uno straniero apparente. Un ragazzo nero si è appena beccato in faccia a voce alta un che puzza ma stamattina una famiglia marocchina aveva lasciato correre sulla bocca troppo aperta di una romana sguaiata un non ce la faccio più co' 'sta gente seguito da rotear d'occhi. Io mi ero girata verso di lei e l'avevo fissata, lei aveva raccolto, ma si era sentita troppo forte per la presenza dei suoi due amici, quindi aveva scelto di ignorarmi. Eppure ero stata severissima, però, così severa che si erano zittiti tutti e tre in un sol colpo. Saranno le radici austroungariche unite a una generosa dose di cazzimma napoletana. I mistosangue riescono sempre bene.

In fondo alla giornata un graffito nuovo, sulle mura della stazione, riesce a riconciliarmi col rientro, come quando scoprii per la prima volta Welcome to Romayork: qualcuno ha deciso di salutare chi entra dentro la città di Napoli con un semplice bellissimo Welcome to an antifascist city.

Catemera, 03/01/2013 - 21:40

Credo capiti una volta a tutti nella vita. Almeno una volta. Il tempo attorno si tende e si spezza, ogni emozione si ferma. Ogni emozione eccetto una: la compassione per se stessi. La sensazione peggiore che mi sia mai capitata. Col dolore ci sto bene, con l’indifferenza vengo a patti.
La compassione è crudele: l’aria diventa come il rumore di un palcoscenico a teatro vuoto e tutte le azioni sembrano involontarie. Ci si guarda come allo specchio, ma non ci si vede come in un riflesso. E si prova pietà per qualcosa che si vorrebbe allontanare dall’idea di se stessi. Qualcosa, come dire tutto. Provare pietà per se stessi genera altra pietà, in un circolo vizioso da cui si vorrebbe fuggire, per far finta di non essere l’oggetto di tutto quel trambusto.
Sono cinque anni che te ne sei andata, dopo cinque anni che ti ho vissuto. Si sottraggono, invece di sommarsi.
Sono cinque anni che ho deposto le armi, e ho cominciato a curarmi le ferite. Ma di quale guerra, non me lo chiedere.
Quel tuo compleanno capitava di sabato e ne eri sollevata, lontana dalle false cortesie dei colleghi. Ti sei svegliata tardi, senza accorgerti della mia muta presenza nella stanza accanto. Ti scrutavo in cerca di foto, che è il mio modo di assaporare quel che provo, quelle foto che poi non sono più riuscito a rubarti. Sono riuscito a possederti in ogni modo, eccetto la fotografia. E non è solo la questione del nudo, su cui peraltro non ti ho mai convinto: sono state le foto a prescindere, tutte, tutte quante, perché le volte che l’ho fatto, che ci sono riuscito, ti sei vista in un modo che ti ha spaventato, un modo più intimo, più crudo, più a fondo di quanto tu stessa avessi mai osato andare. Poi, quando non ci sono più stato, allora sì che hai avuto bisogno di sentirti raccontare in quel modo violento e intenso, ma non hai trovato un fotografo onesto quanto me. E certamente nessuno che amasse la parte più nera che le mie fotografie avevano saputo catturare. Ma tutto questo dopo, solo dopo: da cinque anni a questa parte solo una volta hai provato a cercarmi, hai sperato di riavere su di te quella mia mano che sapeva scavarti e denudarti. Io però dovevo salvarmi, e questo non includeva regalarti le mie preziose analisi.
Ho aspettato che ti svegliassi in silenzio, per la testa tutte le tue foto piene di espressioni mai più decifrate, quelle rubate a tua insaputa.
Prima che ti alzassi mi son lasciato la sicurezza alle spalle per venire a raccoglierti, muto, indeciso e sperduto tra i segnali che avevi lasciato in giro. Non ho sentito i tuoi freni quando ti ho sollevato dal letto, non ho compreso i tuoi scatti quando mi sono immerso nella poltrona, con te in braccio, per una dose del calore di cui pensavo di aver diritto. Hai risposto ai primi baci, ai secondi, mi hai esposto il collo e le clavicole. Poi ho sentito la mia voce buttar fuori qualcosa che somigliava a “Ti stai ritraendo”. “Hai ragione, lo sto facendo.”. Ognuno dei due, in realtà, aveva indirizzato le parole a se stesso.
Quando ho sentito la mia voce, le mie mani non hanno più saputo che fare, non sapevano che farsene di te ma non avevano il coraggio di staccarsi. Non avevo più privilegi, non c’era più possesso. Avessi voluto parlarmi, mi avresti detto che non esiste possesso, tra due che stanno insieme, e certamente io non potevo credere di possederti. Avessi saputo parlarti, ti avrei risposto che erano tutte cose scontate, ma che pretendevo ancora. Nessuno dei due si è preso la briga di fare la sua parte.

Ascolto della musica che finisce per essere solo mia, della musica che ho cercato accuratamente, per pensare solo a me, e rivedo mentalmente tutte le frasi che ho evitato di dire quel giorno. Si raccolgono tutte insieme, aggiungendosi a quelle che non ho avuto il coraggio di dire agli estranei, ai familiari, agli altri amori.
“Vorrei che stessi fingendo, e mi amassi ancora.”, quattordici febbraio duemilaotto.
“Stai pensando a me, lo so che mi vuoi, eppure non lo dici per non esporti per prima.”, sei gennaio duemilaundici.
“Vorresti che ti scopassi e niente più, perché sono noioso.”, dodici maggio duemiladue.
“Ti sto odiando perché non riesco ad amarti.”, ventidue agosto duemilaquattro.
“Abbi il coraggio di dirmi che faccio fuggire la gente perché sono un uomo triste e melodrammatico.”, otto settembre duemilatre.
“Sono l’uomo giusto per te e tu la donna giusta per me, anche se sei di un altro.”, diciotto giugno duemiladieci.
“Mi odi perché ho scopato con la tua migliore amica e non mi hai dato il permesso di svelartelo.”, dieci ottobre duemilanove.
“Io ti ho amato, ti ho amato davvero, e avresti dovuto provarci almeno una volta, nel nome del bene che dicevi di volermi.”, due dicembre duemilasette.
“Fai questa follia e vieni a vivere con me.”, sedici marzo duemilacinque.
“Sei bella, e io mi sento così solo che non mi importa se pensi che ti stia parlando solo per provarci.”, quattro aprile del novantotto.
“Hai smesso di essere il mio migliore amico.”, venti novembre duemilasei.
“Sono vigliacco, non sono depresso.”, ventiquattro luglio duemiladodici.
“Verrà un giorno in cui ammetterai che avevo ragione, e che ci amavamo.” E quel giorno però alla fine è venuto, quindi ho cancellato la data, perché quella frase ha smesso di disegnarmi patetico.

Ma ad ogni altra frase aggiunta al libriccino immaginario, sono stato sempre più patetico. Ad ogni frase in più, so come mi sarei reso più patetico se non avessi fatto la scelta giusta. Quella dell’omissione.
Il compleanno te lo sei passato da sola, senza di me e con i tuoi amici. Ovvero da sola. Hai preso le tue cose, ne hai dimenticate altre, non hai dimenticato che dovevi dimenticare me.
Oggi, a cinque anni di distanza, nel giorno più caldo e affollato di questa estate che siamo bravi a occupare solo col mare, ho messo in pratica la scelta più difficile, più noiosa, più faticosa e più lontana dai miei desideri. Steso sulla spiaggia, ben lontano dai miei scogli, infilato nella folla, mi sono lasciato guardare, ignorare e fantasticare addosso, ho sopportato occhi, voci e frenesia, ma le ho dette tutte: ho smistato tutte le frasi, e sono rimasto finalmente solo, senza di loro, a prendermi la parte di vita che mi era dovuta.

Resti, 13/12/2012 - 21:14

Quella notte poi aspettai la sua partenza per ubriacarmi. Mi ubriacai perché ero rimasta sola.
L’orologio segnava le tre e venti e nella mia follia ebbra ero convinta che si fosse fermato. Ma era estate e faceva troppo caldo per verificare, anche se avrei dovuto, anche se un getto gelido sopra la nuca sarebbe stato cosa saggia.
Gli avevo rivelato tutto, anche le mie paure, anche che non avevo tutte le sue paure. Forse anche quello lo aveva spinto ad andarsene.
Nel mio tempo fermo, mentre cominciavano a svanire i contorni degli oggetti e dei miei dolori, misi su della musica a caso, ballandola fuori tempo con quel compagno assente ormai non più mio.
Buttai giù dei libri dagli scaffali per rileggere frasi troppo note adatte alla serata.
Buttai giù una serie di libri senza rimetterli a posto nell’ordine corretto, cosa che sapevo mi avrebbe fatto incazzare il giorno dopo.
Quando fui sicura di poter affrontare l’umido della notte grazie all’alcool che avevo in corpo, presi le chiavi di casa e uscii in strada. Non era tardi per la mia città e credo non lo sia mai. A quell’ora i locali già chiusi erano ancora pochi.
Avevo con me il cellulare e un grado di spudoratezza sufficiente a chiamarlo nonostante lo spiacevole finale. Composi il numero e attesi di sentire uno squillo, ma fermai la chiamata subito, prima di verificare. Fermai la chiamata e ripresi a camminare, senza sapere dove andare, senza percepire reazioni o pensieri, nemmeno lo scatto fisico che fa la mia pelle quando una qualsiasi emozione rimane ignorata.
Camminai poco, poco e male, e arrivai al mio ex liceo senza badarci, in un posto dove non sapevo che fare, dove in effetti non avevo bisogno di darmi spiegazioni, e dove, per sentirmi in compagnia, andai a sedermi in una delle nicchie del muro di cinta.
Forse la telefonata non era nemmeno partita. Riprovai. Lo immaginavo in treno, a quest’ora: lui, con la sua modesta statura e la sua muscolatura pronta, rannicchiato in un espresso notturno in cerca di quiete. Lo immaginavo sereno e tutto sommato sollevato dal distacco; non volevo torturarlo e non era certo per piangergli addosso che volevo sentire la sua voce. Non avevo scuse, in effetti, se non la mia ubriachezza. E sapevo, in realtà, di non avere nemmeno lontanamente il bisogno di sentire la sua voce. Però rispose. E risposi anch’io.
Infine, nonostante tutto, rispose.
Pochi mesi dopo già avevo rimosso la conversazione. La conversazione in sé come evento, intendo, perché delle parole dette, mi sfuggiva il senso già nell’istante in cui avevo chiuso. Se non posso raccontare la telefonata è proprio perché non ero in grado di comprenderne il contenuto nemmeno mentre la stavo facendo.
Quando infilai il cellulare in tasca, subito dopo, la statua di Dante che si trovava nello spiazzo della scuola aveva cominciato a farmi domande.
- Beh, che si dice?
Non rispondevo, lo ignoravo anche solo col pensiero.
- Oh, che vi siete detti?
Il fatto è che non avevo una risposta. Non era rifiuto.
- Ma che hai?
Guardai la statua e le risposi ad alta voce solo per essere sicura di esprimere un pensiero di senso compiuto. – Niente- dissi ad alta voce. Cosa che peraltro era quasi vera.
Dante non era convinto.
- Come niente? Con quella faccia?
Stavolta non lo dissi ad alta voce. – Sto aspettando di sentire qualcosa. – .Mi aspettavo di sentire un pizzico, un solletico, un’emozione positiva, un’emozione negativa, una qualsiasi reazione determinata da quella telefonata.
L’ultima cosa che sentii dirmi da Dante fu
- Perché, non ne senti?
Non sentivo niente. Ero ubriaca, d’accordo, ma non sentivo niente.
Avevo ridacchiato come una stupida tutto il tempo e ora non potevo far altro che rimanere tesa in ascolto, tastando un silenzio da cui pretendevo di tirar fuori qualcosa di non deleterio, di non doloroso per me. Per un attimo desiderai perfino di scovare in quel vuoto qualcosa di tremendo, o che mi ferisse. E invece non c’era più niente.
Pensavo, ancora avevo quel minimo di lucidità che mi permetteva di formulare pensieri. Pensavo, vorrai sapere cosa stessi pensando di lui.
Ero convinta, e lo sono ancora, che mi avesse amato senza badare a me.
Cioè, che in un certo senso non mi avesse mai amato. Mi aveva dato un assaggio di cosa volesse dire provare emozioni, ma poi si era impigrito, come sempre, come aveva sempre fatto per tutta la sua vita, convinto che qualcun altro avrebbe riempito quel vuoto che lui mi aveva creato.
Non c’è rancore in questi miei pensieri, e non ce n’era nemmeno mentre li stavo organizzando quella sera nonostante la massiccia dose di alcool che mi portavo in giro in corpo.
In quel momento c’era solo questa infantile attitudine a rivangare continuamente il passato, ma sarebbe scomparsa presto, una volta riacquistata la lucidità, una volta riappropriatami della mia vita senza pretendere di occuparla di continuo, in queste notti disperate.
Non c’è rancore ma c’è rabbia, nelle mie parole, e ho bisogno di continuare a parlare nonostante la maggior parte delle lamentele se le sia sorbite Dante quella sera. C’è il tremendo disgustoso bisogno di continuare a descrivere e raccontare le cose, perché ho paura di dimenticarle, perché sono quasi convinta che finirei per trasformarle, nel corso del tempo, trasformarle in altre storie in cui io possa diventare vittima dei miei errori oltre che dei suoi. Magari anche dei tuoi, e non è quello che voglio.
Dopo la telefonata, infine, non ebbi più il coraggio di rimanere in strada. Dopo Dante correvo il rischio che perfino le piante cominciassero a parlarmi.
Rientrai silenziosa come mai in casa, ancora ubriaca ma non stanca.
Presi dall’interno dell’Ulysses il pacchetto di sigarette nascosto che non avevo voluto fargli vedere fino all’ultimo, quando gli avevo confessato che a causa sua avevo ricominciato a fumare. Prima di andare in stazione a prendere in treno credo che l’ultima cosa che mi abbia detto sia stato quanto questa cosa lo facesse incazzare, il fumare di nascosto intendo, non il fumo in sé. Ovviamente aveva ragione ma ovviamente non potevo dargliela.
Cercai l’ultima sigaretta del pacchetto e me l’accesi vicino al fornello.
Poi mi misi ad aspettare il sonno sul balcone.
La strada sotto era deserta, mi dava una bella sensazione di controllo sul quartiere, e perfino i gatti erano a quell’ora più stanchi di me. Spero non mi abbia sentito nessuno, perché improvvisamente scoppiai a ridere guardando le piante semimorte di cui mi ero dimenticata, nell’angolo del balcone.
Semimorte perché decisamente non ci riesco, lo sai.
Sarà che non le amo. Ossia, le amo ma che si curino da sole. In teoria avremmo dovuto pensarci insieme, io e lui. Ma la verità è che nemmeno con te ho intenzione di fare progetti così lunghi come quello di prendermi cura di una pianta stagionale.
Le piante per me sono un accessorio: non riesco ad averci a che fare. Hanno bisogno di troppe attenzioni, come i cani. Io no, amo i gatti, che vengono da me ma poi sono indipendenti, e capiscono di dover comunque far sempre affidamento sulle proprie risorse. Io non posso fare attenzione a loro, alle piante intendo, figuriamoci: non riesco nemmeno a ricordarmi di tagliarmi le unghie. A parte casi eccezionali.
Anche da piccola lo facevo: mi entusiasmavo per le piante nuove, sì, le portavo a casa, le riponevo ordinatamente sul terrazzo, le innaffiavo per la prima settimana, poi mi aspettavo che riuscissero a sopravvivere magicamente da sole, che diventassero bellissime, le più belle, speciali solo perché appartenevano a me.
Facevo lo stesso con le persone. L’ho fatto con gli amici. L’ho fatto con lui. Forse l’avrei fatto anche con te, se tu non ti fossi parzialmente vaccinato. Con gli esseri umani in generale, ho agito irrazionalmente, piazzando i soldatini e pretendendo l’azione, sussurrando loro a bassa voce: “ebbene, ora uccidetevi”. Sempre troppo stanca per proseguire, incostante, strafottente. Troppo pigra per addossarmi tutte le responsabilità del caso.
I pomeriggi estivi, insieme a lui, duravano poco. Mi stendevo a terra sul terrazzo, a farmi scongelare dal sole, ignorando la neonata del piano di sopra, che cantava a squarciagola di un’allegria contagiosa che non mi contagiava mai.
Lui aveva ragione a non voler prendere altre piante, ci pensavo proprio quella sera, di ritorno da Dante, guardando quel paio di povere creature morenti nell’angolo. Non ne voleva prendere perché sapeva che avrei dovuto occuparmene io, che non so occuparmi nemmeno di me stessa.
Il giorno prima, che era cominciato troppo presto, mi aveva distrutto. L’allegria che non mi aveva contagiato mi tornava in mente irritandomi. Accovacciata nel buio del letto, avevo odorato casa fino a decidere di chiamarlo. E dopo la serata, che ora si era conclusa con i deliri tra Dante e me, ero tornata a casa senza sapere chi fossi.
Ero me stessa mentre fumavo sul balcone ridendo insieme ai barboni infreddoliti del quartiere.
Ero me stessa mentre prima di uscire avevo buttato per aria tante cose che lui aveva impregnato della sua presenza. Ero me stessa in quell’ultima rabbiosa sega, sì, hai capito, una sega, che mi ero fatta per riaddormentarmi, visto che l’alcool non era bastato. Prima di crollare, fissando gli oggetti che io avevo scelto per quella casa, che io avevo sistemato, che noi avevamo voluto, pensavo a te. Quella casa che avevo sistemato e a cui ora cominciavo a ribellarmi, col disordine, con la sporcizia, con i soprammobili gettati per terra sperando si rompessero, quella casa era per me sangue rappreso da grattar via dalla pelle. Era il conto dei miei giorni diviso per l’ammontare delle mie forze. Ossia, sempre un numero molto piccolo.
Però. Però, c’è da dire che anche lui ne aveva le palle piene ben prima di ammetterlo. Ossia, ben prima che gli dessi l’opportunità di ammetterlo.
Dal letto, mentre mi addormentavo, quella sera pensai a te. Forse ti ho chiamato senza rendermene più conto, non ero più lucida. Non lo so. Credo di averlo pensato perché è stato molte settimane dopo che, invece, ti ho chiamato (e solo di questa seconda telefonata conservo memoria).
Nei mesi successivi, la bambina del piano di sopra cominciò a dire bozze di parole, tra un canto e l’altro. Io ero ancora in fase calante, invece. Dal mio lato del letto, da cui non avevo voglia di muovermi, finii per imparare a memoria quel che pensavo di ogni oggetto di fronte. Avrei voluto chiedergli del suo amico Sabino, ma ormai era già partito.
Fu allora, dopo due settimane di deliri, che mi decisi a chiamare te. Fu solo per fuggire e cambiare aria che ti proposi di vederci in un terzo posto. Partire insieme, dalla stessa città, con lo stesso treno, vicini nello stesso scompartimento, ma consumare il nostro tempo lontano dalle mie piante morte e dai tuoi lutti non superati.
Feci il biglietto per tutti e due all’ultimo momento, in stazione, quando non speravo più che mi rispondessi. E invece sei apparso dopo poche ore. Io ero là con i biglietti e tu che mi guardavi tremando dalle scale della metropolitana. Io ero là con i biglietti e tu avevi assecondato la mia follia senza chiedermi nemmeno spiegazioni.
Non eravamo amanti, non eravamo una coppia. Non eravamo niente se non due persone che riescono a stare bene insieme. Erano mesi, forse anni, che non ci eravamo visti, e non sapevamo nemmeno più come toccarci, come parlarci.
Salimmo sul treno che ci avrebbe portato a centinaia di chilometri da lì, e ci avrebbe scagionato.
Mi raccoglievi le mani nelle mani.
Mi guardavi ammutolito, ma non per deficit di emozioni.
Mi sfioravi come hai sempre fatto, ma durante quel viaggio mi eccitavi senza saperlo. Mi eccitavi carezzandomi le ginocchia, sfiorando con le nocche il mio interno coscia, distratto, lontano. Quell’azione che avevo sempre tentato di spogliare di significati sessuali, ora mi si ribellava prepotentemente.
Ti infilavi con le gambe tra le mie gambe senza renderti conto che stava venendo meno la mia certezza che quella fosse solo amicizia, che non ci fossero tra le mie cellule, sulla mia pelle, recettori che stessero fremendo.
Invece fremevo. Le tue dita sulle ginocchia e fra le cosce mi turbavano, e non avevo il coraggio di dirtelo. Non avevo il coraggio di ammettere che stavo perdendo quella partita.
I tuoi sguardi, a tratti, mi sembravano valicare il confine che fino ad allora avevamo condiviso.
Il contatto con ogni parte del tuo corpo aveva significato. Tu non volevi dirmi niente e il tuo corpo mi parlava. E il mio rispondeva contro la mia stessa volontà.
Quel viaggio, e il viaggio di ritorno, ugualmente, mi hanno turbato. Mi hanno risvegliato, hanno sollecitato qualcosa che avrei dovuto sperimentare con lui, e invece lui mi aveva soffocato.
I polpastrelli con cui sfioravi il mio collo, la mia schiena coperta da dieci strati di vestiti o coperte, le tue ginocchia incastrate dietro alle mia gambe, ebbene: tutto riattivava scosse elettriche dimenticate. Mi stavi riscoprendo. Riassaporavo la consistenza dei brividi.
Furono gli ultimi mesi in cui conservai la mia passione per le unghie lunghe. Chissà se ti ricordi com’erano. Le tagliai al ritorno perché una rabbia eccitata, una febbre non trattenuta, mi aveva fatto tenere i pugni serrati dal momento in cui avevo lasciato la stazione all’istante in cui ero rientrata in casa. Ero a casa, in cucina, quando mi ero accorta dei pugni rimasti contratti fino ad allora. Avevo poggiato sul tavolo della cucina le chiavi, poi il portafoglio, poi il biglietto per due andata e ritorno che ci aveva accompagnato lungo quella settimana, lontani da casa. Con tutte quelle cose sul tavolo, avevo finalmente rilassato le mani: inebetita, stordita, spaventata, con la mano di fronte al viso, avevo visto una goccia di sangue cadere proprio sul biglietto, dal palmo destro ormai inciso da quelle dannate unghie che lui adorava tanto.
Tagliarle a zero fu un attimo.
Quella notte non riuscii più ad addormentarmi, pensando a quanto avevi reso erogene le mie ginocchia e le mie gambe in treno.
Mi alzai dal letto, perché mi stavo torturando.
Accesi lo stereo mettendo musica a caso dalla mia raccolta. Una canzone che amavamo entrambi mi riempii gli occhi di quella cazzo di acqua salata che ci brucia le ferite e purtroppo anche le scommesse.
Seduta al tavolo della cucina, una lacrima cadde sul biglietto e andò a sciogliere il sangue del giorno prima.

Resti, 04/06/2012 - 19:28

la tua voce si scolora e il tuo volto si fa meno intenso, perde di volume, si abbassa di volume, ha solo due dimensioni, e sono due dimensioni troppo piccole perché io le possa capire, sono due dimensioni che sfuggono ai miei sensi, sgusciano fuori dalle mani, non so più che odore hai, a volte sei solo un nome e delle parole che non si uniscono a prendere forma, e rimango orfana di quelli che erano i nostri sensi, mentre i miei rimangono in attesa, e sono poi gli stessi sensi oppressi dalla gente, tutta la gente che mi investe ogni giorno, le facce stanche delle sette di sera, i muscoli di chi lavora troppo, i sud più a sud di noi e i fuori troppo fuori per rimanere qui dentro insieme agli altri, che poi alla fine siamo tutti qua, per collassarci addosso, per collidere e scambiare i miei capelli biondi col tuo pigmento nero, le mie mani grinzose con la tua pelle tesa e unta, siamo tutti qua, non c'è distinzione, attraverso la strada, incrocio degli occhi troppo voraci, mi fermo, respiro, ascolto quest'organo che batte troppo forte e veloce e sembra voler scoppiare, e no, una volta tanto non è il cuore.

Catemera, 07/05/2012 - 22:53

Mi abbraccia una strada con troppo vento, ma che stranamente non mi infastidisce né raffredda.
- Signorì vi avverto io, non vi dovete preoccupare.
Sorrido, strizzo gli occhi, che poi lo so, finisco per regalare gesti intimi anche a definitivi sconosciuti, se penso se lo siano meritato. Sorrido e il vento tiepido mi fa lacrimare gli occhi, e spero che qualcuno me li veda anche se ho tutti i capelli davanti alla faccia. Mi piace fare la parte di qualcuno che non sono, mi piace pensare che la gente possa guardarmi e inventare storie e supposizioni.
Aspetto un po' di più, ma ne vale la pena. Sentirmi di nuovo in mezzo alle persone come se non avessi mai smesso di farne parte, come se il dolore accumulato potesse spegnersi al solo desiderio di farlo.
Infilo le mani nelle tasche dei jeans e cerco di vedermi e anzi di guardarmi: niente, posso solo sentirmi. Mi vedo negli occhi stanchi di chi mi incrocia, mi guardo in quelli curiosi di chi mi studia. Troppi dejavu si affollano davanti ai miei piedi, ma spazzo tutto via per non farmi sporcare dai ricordi sbagliati.
Sono pulita da me stessa, e pronta.

Catemera, 26/03/2012 - 21:44

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