what is and should never be

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Odio l'invenzione del nome e cognome. Per me le persone sono un nome, una parola, un concetto, niente che le racchiuda ma qualcosa che le identifichi. Quando dico il mio nome, se è troppo comune per l'interlocutore, mi chiede anche un cognome per non confondersi, io non posso fare a meno di pensare che non sarà il cognome a distinguermi e allora gli rispondo con un tono inutilmente sgarbato. Poi finisco per pontificare, come faccio con tutti, come ho appena fatto col mio agente per cambiare argomento e non dar retta alle sue lamentele.
"Allora siamo d'accordo, va bene". Come no. Non va bene niente.
Ho deciso che non ci sono per nessuno. Chiudo la telefonata con un gesto rabbioso, lo stesso che mi scuote la testa come farebbe un cane inzuppato, nella speranza di veder schizzare la rabbia sulle pareti. Dovrei mettermi a pensare al mio nuovo romanzo ma non riesco a immaginare nemmeno cosa potrei cucinare per cena.
Mi fa sempre le stesse critiche, lui, lancia queste accuse perfettamente fondate ma inutili, perché alla fine il succo della questione è che non so scrivere. Ovviamente la sua è semplice onestà, la mia pura vigliaccheria. Passo giornate intere a fantasticare su cosa vorrei dalla vita, facendo quel che romanticamente potrebbe esser chiamato sognare a occhi aperti, immaginando tutto quello che non ho: il sesso con la donna giusta, i viaggi senza meta con gli amici e perfino la sequenza nelle pulizie di casa. Ma è qualcosa che mi rimane incollato e non contagia il mondo esterno. Se provo ad oltrepassare il mio stesso muro e immaginare i pensieri della gente, le scelte, le azioni, gli errori, rimango chiuso su questi ammuffiti pensierini delle elementari, e perdo tutta la profondità di cui so di essere capace.

Mentre mi ripeto che non voglio esserci per nessuno squilla di nuovo il telefono. Lei non dovrebbe cercarmi ma di fatto non si arrende, e ammetto di esercitare una resistenza che è pura facciata. Vuole vedermi, sai che novità. Non ho alcun rancore nei suoi confronti, ma so che è una scelta sbagliata. Lei è sposata, e innamorata.
Anche di me.
Non è nelle mie facoltà giudicarla, non più di quanto possa giudicare me stesso per il non essermi frenato prima che tutto degenerasse.
Qualche anno fa, quando l'ho conosciuta, pensavo che le occasioni perfette al momento sbagliato capitassero, amara coincidenza, solo nei libri, quelli che per l'appunto non ero in grado di strutturare, quelli che non ero capace di scrivere, o meglio, di portare a termine.
Forse fu un inconsapevole esperimento che mi indusse a rivolgere la parola a questa sconosciuta che era rimasta sola al tavolo accanto, nel pub. Me ne sto rendendo conto solo ora, ma una parte di me è riuscita ad accettare l'idea che ci fosse questo stupido scopo dietro quel tentativo di contatto.
Aveva litigato col suo uomo, ma non sembrava nulla di grave. Sembrava uno sfogo causato da accumulo di stress, era stato violento quanto breve: poi lui si era alzato per andare a pagare il conto e sempre con quel tono calmo ma saturo era tornato al tavolo solo per comunicarle la sua intenzione di tornare a casa. Non era stata una grande scenata, volgare o brutale: tutto comprensibile e a portata di orecchio, però. E che avessi il desiderio di inventare una storia vivendola, come dicevo, ho finito per ammetterlo, ora. Ma in quel momento non me ne rendevo assolutamente conto.
Quindi, sì, ammetto che la storia tra me e lei, mai formalmente consumata, mai accettata, è cominciata perché avevo bisogno di scrivere qualcosa di verosimile, perché avevo voglia di vivere tutti i passaggi, e perché credevo di non essere tanto disonesto ad approfittare di una situazione che sembrava premessa di una rottura.
Ovviamente mi sbagliavo su tutti i fronti. Non sarei mai riuscito a usare la nostra storia per un romanzo, non sarei mai stato con lei perché la sua storia non era fragile, e poi, in fondo, non era la persona giusta per me come credevo. Non ci avevo mai pensato, ma lei è una persona che non sorride quasi mai. Come avrei potuto amare una persona che non sorride quasi mai? Come faccio, ad amare. Una persona che non sorride mai.
Ma sono dettagli. Lei è la persona giusta perché il suo comportamento è stato quello che mi sarei aspettato adottasse con me, se fossi stato io il suo uomo. La sua scelta è stata quella che racchiudeva in una sola azione rispetto, amore, ragione e onestà. Se io fossi stato l'uomo che quella sera la lasciò a quel tavolo, sapendo tutto quello che quell'azione avrebbe generato... no, lo avrei fatto comunque, per sentirmi amato da quella scelta, molti mesi dopo.

Mi sto distraendo a ricordare quella serata. Non importa com'è iniziata, importa che non sia finita. Importa, o almeno importa a me, che siamo riusciti a superare la soglia del consentito, di quel che ciascuno di noi avrebbe consentito all'altro se fossimo stati insieme, intendo insieme non ad altre persone. Non ci siamo concessi di incontrarci in quell'albergo a centinaia di chilometri da casa, dove casualmente ci trovavamo entrambi per motivi diversi. Non ci siamo concessi altro sesso che quello parlato, al telefono, fino a notte fonda, quando io lavoravo ancora in agenzia e rimanevo in ufficio fino a tardi a programmare. E non era quello che troppo comodamente viene chiamato sesso virtuale: era parlare di noi, era prepararci a stare insieme, anche se sapevamo che non sarebbe mai accaduto. Rimanevo nell'ufficio svuotato con la scusa di proseguire nel lavoro ma in realtà aspettavo che lei comparisse per svuotare il mio cassetto di confessioni, e scambiarle con le sue. Non ci siamo concessi altro che un contatto carnale ma casto, quella volta che ci siamo rivisti, in mezzo ad altra gente ad una festa di conoscenti comuni, ed era già tutto degenerato in una misura che non permetteva ipotesi alternative. Ci attaccammo, premendoci corpo contro corpo, pelle contro pelle, odore contro odore: ma se qualcuno ci avesse visto avrebbe solo pensato che eravamo stretti nella fila di gente che stava uscendo sul terrazzo per brindare al festeggiato.

Ora mi ha chiamato perché facciamo finta di essere in pace. Ah, no, lei non fa finta. Io sì.
E infatti ho accettato di vederla. Ho accettato di aspettarla alla fermata della metropolitana per farci insieme sempre quel solito lungo tratto di strada che una volta facevo da solo, quella che mi portava al Quirinale, per poi scendere le scalette e trovarmi giù, nella stradina che passa davanti all'ingresso, e infine arrivare, quasi in fondo alla discesa, al portone dove c'era quel buco che chiamavo pomposamente ufficio.
Che poi, scalette: scale, scalone. Su quella scala sono scivolato rovinosamente quel giorno che sono tornato sotto la pioggia dal tradimento inutile. L'avevo tradita per rabbia, ma come si fa a tradire una persona che non si possiede e per la quale il mio non sarebbe mai stato vissuto come un tradimento? Sto divagando. Questa sarebbe un'altra storia.
Ora, ho accettato di andarla a prendere alla fermata tra mezz'ora, lei avrà la bici ma come sempre non la userà, perché cammineremo lentamente fino alla piazza. Ci fermeremo a guardare il panorama mangiando qualcosa che avrà portato, qualche dolce fatto da lei, quelli che cucina solo per gli ospiti, i vicini in tutto il palazzo e me: il suo uomo non ama i dolci.
Mi racconterà cose nuove come fossimo davvero l'uno il migliore amico dell'altra, come se potessimo dirci tutto e aspettarci tutte le critiche e i consigli del mondo. Sarà piacevole fintanto che non le farò notare che per me non lo è del tutto, e so che non lo farò, perché non voglio perderla. Non sono ancora pronto a sostituirla con l'amore vero a cui credo di aver diritto.

E così è andata. Avanti, dovrei andare avanti: sia in senso metaforico che letterale. Dovrei evitare questi incontri, perché mi lasciano legato a lei. Cosa dicevo all'inizio? Che è ancora legata a me? Sbagliato: è innamorata di me, ma non se ne rende conto. Io sono innamorato di lei, ma me ne rendo conto, quindi io scelgo di rimanere legato, lei si lascia trascinare dai sentimenti senza prendere atto del legame. Pure considerazioni filosofiche: dovrei andare avanti, ma in direzione contraria. Perché continuando a camminare nella direzione in cui lei procede con la bicicletta finirò per allontanarmi dalla fermata della metropolitana. E dalla scelta giusta.

Per cui, ora attraverserò la strada, costringendomi a non girarmi per non vederla scomparire dietro l'ultimo angolo visibile. Mi appoggerò al muro del primo palazzo che incontrerò, con la faccia sull'intonaco e il grillo parlante che mi rimprovererà per l'ennesima volta, perché la strada è sporca, i palazzi sono sporchi, la gente attorno è sporca e sicuramente ad appoggiare la guancia al palazzo in questo modo rischio di prendere un'assurda malattia. Ma questo grillo parlante ormai si è fatto vecchio. E allora continuerò a schiacciare questo mio muso indurito sulla strada. Lo farò ad occhi chiusi, per far passare qualche istante. Quando li riaprirò per provare a guardare l'orologio e verificare se sono in ritardo per l'ultima metropolitana, scoprirò sicuramente che si è fermato.

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