electric dreams

Alle otto questa mattina c’era solo un velo chiaro a nascondere gli oggetti. Alle due, invece, iernotte, la luna piena scopriva a fondo il portico. Probabilmente per godere appieno le cose bisognerebbe ribaltarsi nello stesso modo.
La differenza tra il ricordo reale e quello rubato risiede nell’emozione che lo attraversa.
Peccato che l’essere umano sia capace di avvolgere di emozione anche ricordi inventati, e renderli reali da quell’istante in poi per tutta la vita. Il sogno. È l’escamotage sufficiente a rendere credibile un ricordo inventato. Il sogno è un ricordo inventato.
Questa estate ho visto la stella cadente più emozionante della mia vita, forse non solo della mia. Lenta, nitida, scavata nel nero del cielo, partita lontanissimo e giunta fino in fondo al lato opposto, a metà si è incendiata d’azzurro violento. Ho cacciato un grido di sorpresa.
Poi è andata a fissarsi negli occhi e nel cranio, in buona compagnia.
Perdere le cose. Altro che fissare. Un appunto dimenticato, singolare nel suo meta significato. Due parole, quasi tre a descrivere qualcosa che avrei dovuto ricordare e poi sviluppare, e che invece logicamente ora rimane parcheggiato in attesa di compagni, notturni, chiaramente sempre notturni, fantasticamente confezionati, deliziosamente articolati nella loro perfezione. Mai registrati per iscritto.
Quando mi dissero il suo nome lo appuntai mentalmente di fretta nel mucchio di omonimi di mia conoscenza.
Quando poco dopo me lo ripeté lui stesso pretesi anche il cognome, sorridendo della necessità di segnarlo con cura, perché le cose che partono anonime o meglio omonime finiscono sempre per diventare più speciali delle altre. Nel sentire il suo nome dalla sua voce avevo già individuato quella manciata di dettagli dell’involucro che per la gente coincidono col contenuto: età, lineamenti, orientamento sessuale, estrazione. Non mi servivano a molto ma è anche assurdo convincersi che non servano mai a nulla.
Lavoravamo in un posto di merda gestito da gente di merda e frequentato ancora peggio. Un paio di settimane dopo da dentro un sorriso aveva voluto condividere la sua normalità. Tu prendi tutte le frasi che dico agli altri: sono vere, solo che la mia ragazza è il mio ragazzo. E il mio sorriso di risposta era stato per il sollievo con me stessa di non aver sbagliato, unito alla gioia che avesse scelto me, tra tutti quanti, per rivelarlo. Accompagnato dalla risata del subito dopo anche tu allora quando dici il tuo ragazzo, no, io intendevo proprio il mio ragazzo. Ma non cambiava nulla.
Non poteva svelare di avere un ragazzo anche perché all’epoca conviveva con quello che era il (non dichiaratamente gay) figlio del rettore dell’università. In un periodo di mia folle insicurezza, in un momento in cui cercavo di risalire dalla più profonda e sedimentata disperazione, scoprire che a pelle qualcuno mi aveva scelto per la sua confidenza più essenziale mi avrebbe quasi fatto piangere di gioia, se avessi avuto spazio e soprattutto strumenti per esternare emozioni primarie.
Anche io intendevo la mia ragazza? No, ma faceva lo stesso. Per me era un caso, e avrei voluto che rimanesse tale, e sicuramente volevo lo ritenesse tale.
Prima che finisse la stagione estiva, e quindi lavorativa, mi invitò al compleanno del suo ragazzo, in una parte bellissima della città, in una casa meravigliosa perché evidentemente molto desiderata e amata. Mi ricordo una battuta - sono proprio un procione -  - no, tu sei un procione col ph - o qualcosa del genere, che mi aveva fatto ridere, e sentire definitivamente a casa. Avrei potuto scherzare con loro e di loro, come loro con me e di me. Non c’erano tabù, non c’era alcunché di politicamente corretto a rinchiudere le interazioni umane in etichette e compartimenti stagni. Non amo le feste, ma ricordo quella sera come il genere di evento a cui mi sarebbe piaciuto partecipare, nel caso. Fu appagante in un modo che non avevo mai sentito dentro.
Ho sognato quest’amico tempo fa, poi ho dimenticato il sogno, come mi capita ultimamente (è una novità della vecchiaia, ho sempre ricordato tutti i particolari di ogni singolo sogno di ogni notte). Ricordo però benissimo l’emozione di riabbracciarlo e la gioia di saperlo ancora felice di vedermi, che è poi la parte del sogno che mi serve da sveglia per venire a patti con me stessa: far finta che le persone con cui non sono più in contatto non ce l’abbiano necessariamente con me.
L’altro strumento possibile di salvezza quotidiana è azzerare, ricominciare come nel quadro di un videogioco, provando ogni volta a cercare quelle che dovrebbero essere le parole migliori, le scelte meno dannose, le svolte giuste.
Ma azzerare, qui e ora, significa anche giocare a chi potrei essere, visto che nessuno mi conosce. Mi preparo sempre dei discorsi di fantasia, per cercare le parole. Non dipende dalla lingua, è indifferente. Poi non cambia nulla, quando parlo davvero improvviso lo stesso, a volte mi viene bene, altre farfuglio, ma non importa. L’ultima volta che ho giocato aveva davvero del surreale, più del solito: pensare di raccontare a un estraneo perché avevo la faccia triste, per giunta cercando le parole in francese, dal momento che lui era francese. E che per colmo d’ironia, la nostra lingua franca sarebbe stata lo spagnolo. Oui, je parle français, mais comme l’espagnole. Je ne me souvien pas des mot toujours. Mi fermo e ci ripenso, sicura ci sia qualcosa di sbagliato, perché quando immagino le parole ovviamente le vedo scritte. Ce matin j’ai dit adieu a mon vehicle, y a un amis qui était dans la machine. Metaforicamente, s’intende, no se preocupe. Dio, che follia. Tornare indietro, pensare all’amico che non c’è e con cui non sono più in contatto, sperare (far finta) che non ce l’abbia con me, recuperare la faccia giusta per la conversazione, chiusa parentesi, punto e a capo. Dicevamo?
L’estraneo era francese, colto, architetto, cinefilo, letterato, gattaro, spagnolizzato ma non troppo, molto italianizzato dopo tredici anni di vita prima a Venezia poi a Roma. Non accettava di usare la lingua che francamente avrebbe dovuto essere la sua, considerato che anche io avrei potuto parlarla, né quella del luogo in cui viviamo, che evidentemente usava troppo spesso. L’italiano non lo parlo mai, per favore continua a parlare in italiano così lo esercito un po’. Per una volta era stato impossibile avere dubbi sull’aver parlato male o con cadenza italiana: mi aveva riconosciuto solo dal nome, l’unica parola che mi era uscita di bocca. Una voce incantevole e solo le mani a tradire l’età. Avrei voluto raccontargli qualcosa e restare ore in ascolto dei suoi progetti, mentre diceva en passant di aver lavorato per Patrice Chereau e di aver conosciuto Fellini e Visconti.
Nel recarmi all’appuntamento con quest’uomo un incrocio mi aveva stupito col cartello di termine della tariffa taxi. Terme municipal de…, allo stesso tempo avviso, perché da quel punto si paga meno. Oppure di più. Questo è un confine. Questi sono i confini.
Al ritorno avevo pensato di passare per il pezzo di strada che costeggia le piste di atterraggio degli aerei, dove tutti si fermano per provare a fare foto, me inclusa. Una manciata di ore prima c’erano troppe auto parcheggiate e gridolini. Dopo no: solo un vento feroce, una radio inafferrabile, un sole impotente.
È così che le cose non passano.
E se non bastasse arrivano i sogni umanizzanti. Quelli per esempio in cui ho una storia d’amore (non parlo mica di sesso) con persone insieme a cui mai mi verrebbe in mente di stare. L’amore non c’entra nulla, il sesso figuriamoci. Lo scopo è chiaramente che io assegni a quelle persone, dal momento in cui le sogno in poi, un legame o un contatto che non me le faccia sentire troppo estranee. Per empatizzare, per provare a immedesimarmi, come se una parte di me si accorgesse solo in seguito e sempre nel sonno che, da sveglia, rischio di rimanere troppo a distanza. Il sogno serve appunto a questo: creare un falso ricordo, gettare un ponte, sviluppare un’emozione che a differenza del freddo scampolo di memoria non potrà mai venir cancellata. È un trucco. Un trucco che odio, ovviamente.
“Un giorno ti racconterò perché ho smesso di guidare.” Perché non l’hai mai fatto arrivare, quel giorno? Da allora mi hai autorizzato a inventare storie sulle origini di questa tua scelta. Aveva a che fare con gli occhi, è l’unica cosa che ricordo tu mi abbia detto. Il mio problema invece ha a che fare con lo sguardo. Tranchant. È una bella parola, ma non ammette repliche. È questo il mio peccato originale, eccetto che con te: in questo caso la tranchant sei stata tu, credo.
Risalendo dalla Puglia sarei voluta venire a trovarti tante volte, ma non è mai stato il caso. Anche ridiscendendo dal Friuli, o dalla Lombardia, o dalla Liguria. Ero libera e pronta a farlo, non lo eri tu. Forse non lo eri più.
Emettere giudizi sommari ma definitivi.
Trovo immorale spendere così tanto soldi per un giocattolo (questa non ho potuto raccontartela, ma quanto avrei voluto).
Il resto del mondo è sempre un gradino sotto, sempre poveracci, sempre ignoranti. Tu sei escluso dalla categoria fintanto che la omaggi come è dovuto, altrimenti vieni spostato di cerchia, sempre più esterna, sempre un po’ più esterna (anche questa è accaduta molto tempo dopo il nostro distacco).
Ripenso alla morbidezza del mio nome nella tua bocca, l’unica a cui abbia mai concesso di declinarlo in un vezzoso diminutivo. La tua intelligenza e la tua ironia lo hanno sempre reso buffo e affettuoso, mai lezioso. Con la stessa soffice cadenza eri pronta a sfoggiare qualsiasi giudizio, qualsiasi commento, tutti quei tuoi cinismi brillanti che ho sempre adorato, inconfondibili. Nessun altro mai.
Rileggendo le parole che ti ho dedicato tempo fa ritrovo la stessa ferita aperta nello stomaco mentre ti guardo ritagliarti una manciata di minuti per darmi la buonanotte. Per deporre le ultime armi e arrenderti in tutta la tua fragilità ai miei occhi. Per dirmi, in cinque minuti e senza parole, chi eri davvero: e chiedermi di amarti ancora.
Sono ancora là con la mia presa sulle tue mani, le parole bisbigliate per non svegliare figlia e marito, la devozione in un’amicizia a cui non hai più creduto.
Il sogno di cui ho avuto bisogno e desiderio mi ha collocato a pochi anni di distanza, ma sempre nella tua casa. E mi ha fatto assistere alla preparazione di un pranzo, ai racconti del tempo perduto e al risveglio sul divano la mattina presto, prima della corsa alla fermata dell’autobus, l’ultimo utile per arrivare giusti al binario della stazione.
Il sogno è diventato presto ricordo elettrico, che mi ha perseguitato per molti giorni successivi. E si è tramutato in un proposito. E in un secondo sogno elettrico.
Sono all’angolo della strada, la tua, quella solo pedonale, o forse ricordo male. Ti vedo raccogliere da terra il cappellino azzurro che hai comprato solo qualche giorno fa a tua figlia. “Eva! Ti è cascato! Che poi prendi freddo.” Non è più così piccola ma è sempre, ancora e sempre, tanto vivace. Ormai va a scuola da sola e non è più necessario che tu l’accompagni tenendola per mano, lungo la strada. Scambi il cappello con un bacio, rallentando il passo prima di varcare il portone, incuriosita da ciò che spunta dalla cassetta delle lettere. Sembra un pacchetto, ma sei certa di non aver ordinato nulla. Ed è sicuramente per te, come conferma il nome, preciso, l’indirizzo, aggiornato all’ultimo trasloco, e la dicitura regalo, che garantisce l’anonimato al mittente: come fanno tanti di questi siti di acquisti online, se richiesto. Fai la tua faccia buffa, quella con le sopracciglia tese e una riga sopra al naso, quella che secondo me fa di te un’attrice e fors’anche una giocatrice di poker. Apri il pacchetto e dopo alcuni attimi di perplessità riconosci l’oggetto, che identifica senza alcun dubbio il mittente. Ma la mia visione si ferma qui, l’elettricità non procede per essere trasmessa o condotta, rimane tesa tra le estremità, tra la testa che l’ha generata e la pancia che non la sostiene.
Aspetto solo di trovare il regalo giusto.

Sezione: 
Catemera