whose army?

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Sull'ultimo pianerottolo devo fermarmi di colpo, abbandonando la testa sul petto. Ricordare qualcosa poco prima di raggiungere il portone, dopo cinque piani di scale non è il massimo. Niente ascensore. Maledizione.
Faccio scivolare con poco affetto le dita sul corrimano in un lento dietro-front.
Cinque piani più su la porta di ingresso è rimasta aperta e dalla finestra  del corridoio che separa i due appartamenti del quinto piano sta entrando un fascio di luce polverosa che in questo momento punta proprio sulla soglia di casa. Sorrido per un attimo, immaginando di fermare quella giornata per sedermi sul pavimento a seguire l'andamento di quel raggio di sole fino alla sua scomparsa. Poi niente sorriso: ho dimenticato il motivo per cui sono risalita, come mi capita sempre ultimamente.

Entro in casa guardando nel vuoto e sperando che qualcosa me lo ricordi prima possibile. Ma finisco per cominciare il giro delle stanze. La casa è un corridoio che divide le stanze a sud da quelle a nord. Il corridoio parte proprio dalla porta d'ingresso e tira così una linea dritta fino in fondo all'appartamento, a sinistra il sud (o vagamente sud-est), a destra il nord, nord-ovest.
Rimango istintivamente sul lato illuminato della casa. La prima stanza è la cucina. Anzi, il tinello. Con un brutto gioco di parole si potrebbe dire che del tinello è rimasta solo la cucina, col suo lunghissimo piano di legno massello, come non se ne fanno più. Gli elettrodomestici sono stati portati via: peccato, erano tutti in acciaio, li avevo voluti apposta così per integrarsi col gioco di legno scuro e accessori di acciaio che avevo usato per la cucina, quando l'avevamo costruita. I libri di cucina però, sono rimasti tutti. Li ho lasciati di proposito sulle mensole che avevo ricavato con i residui del legno. Sono l'unica nota colorata che vivacizza l'ambiente. A parte i limoni, provenienti dall'ultimo raccolto. Avevo in programma di farne liquori per Lucio e Sara, gli unici amici che ne gradiscono. Quello che volevo farne per me non importa perché non ne ho più il tempo.
Mi avvicino a chiudere meglio il rubinetto, che è rimasto a gocciolare e guarda caso stava schizzando tutto il lavello, perché l'acqua cadeva giusto sul cucchiaio che avevo usato questa mattina per fare colazione. Appunto mentalmente di provare a stringerlo un giorno o l'altro, perché non sarebbe la prima volta che rimane a gocciolare tutta la giornata.
Quando ero entrata in questa casa la prima volta avevo in programma di allargarlo, questo ambiente, ma è rimasto sempre e solo tinello: mi sarebbe bastato buttare giù la parete che lo separa dalla stanza accanto, che infatti è adibita sia a sala da pranzo che salotto, con i due piccoli divani, il televisore, l'amplificatore e tutti i miei film. Ma alla fine ho sempre rimandato perché ho ricavato nell'angolino un po' di spazio per un tavolino a cui appendermi con uno sgabello, e per questi ultimi anni mi è bastato. Da quando sei andato via mi è bastato. Ma tavolo e sgabello non ci sono più ora: percorro con lo sguardo il lungo piano di lavoro della cucina, l'acciaio dei fornelli e dei pochi utensili rimasti appesi alla parete. Niente, non mi viene in mente niente.

Lascio la borsa in cucina e provo ad andare a cercare nel salotto.
Le pareti andrebbero ritinteggiate: a furia di spostare le librerie che ho costruito per cercare la migliore composizione possibile ho sporcato le pareti di metà stanza. Non che sia importante, ma ora che è quasi tutto vuoto la sporcizia di queste pareti, che prima era senza ombra di dubbio vita vissuta, diventa improvvisamente bruttura e nient'altro. Il tappeto che era della camera da letto di mia nonna rimane un po' perplesso, puntellato sul pavimento dall'unico mobile rimasto, quel tavolino basso su cui poggiavo i piedi mentre leggevo o guardavo i film, e su cui ora sono accumulati ordinatamente tutti i telecomandi orfani. Una piantana rossa con la base di acciaio lucido, che ho sempre odiato, è ancora attaccata in corrente all'altra estremità della stanza: sembra chiacchierare col tappeto. Mentre vado a staccarla, saluto Antoine Doinel, Harry Caul e gli altri poster di cinema rimasti su un'unica parete, quelli che suggeriscono fieramente elementi del mio vissuto, parlando più di quanto ultimamente riesca a fare io. Mi infilo con lo sguardo sul termosifone parzialmente nascosto dalla porta: potrei averci dimenticato distrattamente qualche oggetto sopra, ma non è così.
Esco dal salotto a marcia indietro, attraversando il corridoio per infilarmi sul lato nord, e precisamente nell'enorme stanza da bagno. Ma niente mi aiuta, anche qua è tutto in ordine, il bicchiere in uso con il mio spazzolino, il mio pettine, il dentifricio e il rasoio usa e getta. Dall'altro lato del lavandino, il portasapone per gli ospiti, con quel sapone intonso che non adopero mai. Appeso alla parete dallo stesso lato, l'asciugamano per gli ospiti che ho cambiato giusto ieri sera. Il mio accappatoio è ancora appoggiato alla cabina doccia da stamattina, nell'attesa che si asciughi: se stamattina fossi rimasta in casa l'avrei appeso fuori al sole e ci avrebbe messo pochi minuti, col caldo che c'è.
L'unico grande difetto di questa casa è stato piazzare la camera da letto sul lato nord, perché comunicasse internamente col bagno senza bisogno di passare dal corridoio. Impossibile invertire la posizione con il salotto. Ho sempre dormito con poca luce, al contrario di come sono sempre stata abituata a fare. Sono rimasti due dei quattro armadi che c'erano originariamente, e di questi due solo uno è pieno: ci ho lasciato i vestiti che preferisco, anche quelli che non uso in questa stagione. Meno male che hai voluto il parquet in camera da letto: io lo odiavo, ma ora che il letto non c'è, dormire sul materasso mollemente appoggiato direttamente a terra è stato un caldo distacco. Sul comodino dal mio lato, cioè, da quello che era il mio lato, rimane il libro che ho terminato ieri sera ancora leggermente curvato dalla lettura. L'altro comodino ha il piano d'appoggio vuoto. Ridacchio da sola pensando che furono una bella scelta, a suo tempo, perché ora hanno smesso di produrla, questa serie.
Non so quanto tempo sia passato a cercare tra gli oggetti. Non sono in ritardo ma devo andarmene, e pazienza se ancora non riesco a ricordare cosa mi aveva fermato sulle scale: prima o poi mi verrà in mente.

Prima di uscire di nuovo da casa, raccolgo la borsa dal pavimento della cucina e mi allungo un attimo in fondo al corridoio, a chiudere la porta del ripostiglio. Ma è all'ultimo istante, per la seconda volta sulla soglia di casa, che vedo sul fondo del portaombrelli, ormai vuoto, cosa avevo dimenticato. Le chiavi di casa. Infilo una delle mie braccia da scimmia e le raccolgo senza fretta. Ripercorro mentalmente le stanze, senza bisogno di farlo fisicamente, e infine con le chiavi nel pugno sinistro mi tiro con violenza la porta d'ingresso uscendo.
Una mandata. La seconda. Aggiungere la terza non farà certo male.
A questo punto posso scendere le scale con calma, perché ho terminato il mio compito. Accanto al portone, controllo la cassetta della posta: il postino potrebbe esser passato prima del solito oggi. Ma c'è solo pubblicità.

Poi sono in strada e li vedo. Sono tanti perché non è un lavoro da poco. Ne riconosco un paio che erano venuti già in passato a fare i sopralluoghi. Qualcuno mi sorride. Ce n'è uno in particolare che non conosco, ma mi sorride affettuosamente, senza insistenza, senza invadere cercando il mio sguardo. Sta semplicemente aspettando, appoggiato con la schiena al muro del marciapiede opposto al mio e una sigaretta in bocca.
Decido che è lui. Attraverso la strada deserta e chiusa al traffico e lo raggiungo. Gli do il tempo di prendere la cicca tra le dita per un ultimo tiro e poi spegnerla a terra sul marciapiede.
Starà pensando che sono matta. Ma se lo pensa non lo dice né a parole né con gli occhi. Non formula pensieri mentre mi avvicino, gli prendo la mano della sigaretta e ci infilo dentro il mio mazzo di chiavi.
Mi ci vuole qualche istante a concludere il gesto. Gli chiudo tutte le dita lentamente, poi alzo lo sguardo sorridendo ma solo fino alla sua spalla. Lo sento ricambiare il sorriso rispettando lo sguardo. Potrò immaginare che mi segua con gli occhi mentre mi incammino lontano da casa, ma non mi interessa verificarlo. Sento solo il rumore delle mie chiavi mentre vengono fatte scivolare nella sua tasca della tuta da lavoro. Ho solo il tempo di sentire che stanno cominciando.

Il mio palazzo è il capofila di questa specie di terratetti. Se fosse Firenze sarebbero tali, ma siccome siamo altrove ci somigliano solo, a dei terratetti.
Ad ogni modo, era tanto per dire: cominciano in ordine, dal primo della strada. Le gru e le altre macchine sono già tutte schierate pronte a ripassare la loro coreografia.
Quanta precisione.

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