no alarms for my surprises

C’era tra noi uno strano silenzio. Litigavamo, e come per un tacito accordo nessuno dei due si accorgeva, o, per meglio dire, ciascuno faceva finta di non accorgersi, degli occhi lucidi dell’altro.
Avevamo entrambi gli occhi lucidi. Entrambi cercavamo di nasconderlo, bevendo, io, muovendosi, lui, ma soprattutto evitando sempre di far incontrare gli sguardi. Poi gli sguardi finivano per incontrarsi e creavano scintille repulsive come magneti forzati al contatto.
Sapevo che lui, in me, l’aveva già notato, anche perché, col passare del tempo, mi capitava sempre più spesso, e non riuscivo a trattenermi abbastanza da evitare che altri lo notassero. Quindi lui non poteva non aver visto. Mentre invece io di lui non me ne ero accorta.
Poi dalla camera, dopo, quando avevamo calato tutte le spade, e sistemato tutte le parole in un qualche posto, solo allora, dalla mia stanza lo sentivo fuggire in corridoio e nell’altra stanza, sempre più lontano, realizzando che tirava su col naso pesantemente, e improvvisamente, da un istante all’altro, non come quando usciva in moto senza casco e tornava strofinandosi il naso. Le lacrime gli riempivano il naso ed era più bravo di me a buttarle giù davanti ai miei occhi.
Allora anche lui aveva evitato il mio sguardo, allora anche lui non era più tanto sicuro di sé, allora anche lui si tratteneva a stento. Le sue ferite però si rimarginavano subito.
Non c’era più un uomo che potessi aver la presunzione di chiamare ‘mio’. Nessuno voleva esserlo, nessuno che volessi io. Nemmeno ora c’è un uomo per il quale possa rivendicare qualcosa.
Il silenzio, era il mio uomo. Il silenzio ora, mi è compagno e mi accompagna.
Le mie giornate scorrevano attutite, in apnea feroce, per non darmi il tempo di accorgermi di quanto stavo sprecando me stessa.
Il primo momento in cui ricominciavo a respirare era in macchina. Non a casa, non sul mio letto. In macchina.
Dopo una giornata di lavoro iniziata il più presto possibile perché si concludesse anche, prima possibile.
Sportello chiuso, mi dicevo qualche parola. Cercavo di ascoltarmi. La mia voce era vuota. Mi parlavo per qualche minuto per riempire di voce il mio silenzio.
Quando, in quell’altra vita, io e Jules ci amavamo, il mio silenzio era pieno. I nostri.
Quando Jules ed io ci amavamo non l’avevo mica capito.
Da quando sono sola mi ci metto a pensare per giorni, poi decido di smettere per non alienarmi del tutto.
Mi ci ero messa ieri, prima che qualcuno mi chiedesse di smettere, e mi venisse in mente di chiamare Claudia.

- Ciao.
- Ciao tesoro!
- Dove sei?
- In Trentino, mi godo un po’ di vacanza. Tu niente?
- Per fare una vacanza bisogna non essere depressi. Non credi?
- Sei di nuovo depressa?
- Non ancora. Diciamo che vedo questa specie di mostro molto attraente nell’angolo della camera, molto sfocato, ma tanto anche se è sfocato io lo so, com’è fatto. E mi attira.
- E tu non ti fare attirare.

Infatti sono qui a scrivere le parole che ti avrei detto se ti avessi chiamato.
Quando ci amavamo, Jules ed io, la depressione era una cosa privata. La depressione era una sega che dovevo farmi da sola, senza disturbare, senza che qualcuno mi sentisse mugolare, senza turbare i vicini con le dita umide.
Jules lo sapeva e accettava di dover fuggire, anche se non avrebbe voluto. Jules era me. Per questo, anche alla fine di liti furiose, non mi rimaneva altra voglia che quella di morderlo, morderlo per sentirlo dentro e poi piangere con lui, e poi piangere su di lui, e infine asciugargli le mie lacrime addosso.
Ogni altra rabbia depressiva, dopo, è diventata così pubblica da venire riversata solo su di me.
Quando finivamo per urlarci addosso, io e Francesco, non c’era tregua, non c’era amore, si azzeravano anche l’affetto o il rispetto umano, o la stima. E la mia rabbia voleva mordere ME, per avermi permesso di arrivare a quel punto. Ma io lo so, dentro, come sono, e non sarebbe stata come la sorpresa di Jules, e nessuno avrebbe asciugato le lacrime addosso a me.

- Non piangere. Cazzo ti ho detto di non piangere.
- …
- Non sopporto di vederti così.

Non mi sopportavo nemmeno io, ma avevo il buon gusto di non sottolinearlo.
Quello strano silenzio si era aggravato ma non era gravido, e non cercava vie di fuga. Avessimo potuto, Jules ed io ci saremmo amati fisicamente, ci saremmo avventati, ci saremmo gettati l’anima e la carne contro. Per non permettere alle rabbie represse e depresse di svuotarci, da dentro. Ma Francesco, quando spegneva tutto, lasciava morire anche i germogli. Le liti si spegnevano, i gesti, si spegnevano, le emozioni, si spegnevano. Lui, pochi istanti dopo, ripulito e sollevato, si riaccendeva, io non avevo sveglie, reminder, post-it. Io e la mia rabbia andavamo a dormire, e le parole me le ingoiavo senz’acqua, come pillole, per combattere un’insonnia che sospendeva tutto quanto, meno che il dolore.
Quando ci amavamo, Jules ed io, era tutto sbagliato, ma faceva un piacere incredibile.
Il giorno che gli regalai il mio primo vero anello, passando il testimone di un fondamento di vita, non sapevo se l’avrei rivisto ancora, e la cosa non mi preoccupava. Non voleva capire, e allora mi stringeva soltanto le dita, una per una, con le sue mani molto più belle delle mie. E’ stato in quel momento che ho cancellato quasi tutto il nostro passato, per lasciarmi dentro solo la sensazione di aver vissuto felicemente insieme a lui, senza conservare tutte quelle piccole scatoline che all’occorrenza avrei potuto riaprire per mettermi a piangere sui rimpianti e i rimorsi.
Pensavo che ci sarebbe stato tempo, se era destino, per ricreare momenti simili, per viverne altri intensi come quelli. Altrimenti non aveva senso mantenere in archivio registrazioni delle sue voci, immagini dei suoi gesti, racconti delle cose fatte insieme. Dentro di me non c’era posto, a meno che non lo volessi io. E io ero decisamente contraria.
Quando ormai era praticamente finita con Francesco, ripresi a viaggiare, per un po’. Potevo ancora abitare nella nostra casa, in sua assenza, ma non riuscivo a viverci. La macchina era sua, ma i treni non mi mancavano.
In fondo volevo solo qualcuno. Volevo riprendere a sentire in bocca la pienezza della parola ‘mio’.
Come ora, uguale, come ieri, come oggi, come sarà certamente domani mattina al risveglio.
Uguale, se non fosse che in mezzo c’è stato altro tempo, altri minuti che si sono sommati, numeri che si sono accumulati; eppure nessun giocatore sballa e perde, perché i numeri non raggiungono alcun punteggio o tetto prestabilito, visto che non c’è alcuna partita in corso. Ma soprattutto, se nessuno sballa e perde, non c’è ancora un vincitore. E quel vincitore non posso essere io.
Avevo, e ho, bisogno di riavere indietro il mio corpo, quel corpo che comincio ad amare solo quando vedo che si comporta bene con qualcuno che non sia io.
A volte sentivo una mano carezzarmi la nuca, come un tempo avrebbe fatto Jules per distrarmi e tranquillizzarmi.
A volte, ancora oggi, mi basterebbe poter abbassare la soglia e far finta che qualcuno penserà a me anche solo fino a domattina.
E sperare che qualcuno non mi lasci sola in casa perché ha da fare altrove rivendicando una libertà che non sono io a negargli.
E anche, che qualcuno non mi ami a rate, a puntate, a condizioni.
E che il suono delle parole ‘ti amo’ non sappia di rancido, di ridicolo, di forzato, ma raggiunga le orecchie come la cosa più spontanea che ci si possa dire, solo perché è il modo più semplice per arrivare a a qualcuno, quel qualcuno da cui non ci si vorrebbe separare, quel qualcuno con cui non bastano i mezzi umani, per.
Ripresi a viaggiare per non sentirmi farneticare a questo modo.
Quando ripresi a viaggiare, prima di cambiare vita, guardavo con disperazione e desiderio le persone in giro. Cercavo di impersonare qualcuno di diverso in ogni treno, per spingermi oltre le mie capacità, per suggerire a me stessa che sarei stata capace di abbassare la soglia, se solo mi fossi allenata a tener duro.
Durante i miei viaggi mi sono fatta baciare, mi sono fatta inseguire, mi sono fatta manipolare e perfino odiare. Allora non ne ero quasi consapevole, ma ora identifico tutti i personaggi, tutte le vittorie, ciascuna sconfitta.
Tornai a casa in un giorno qualunque, con un umore imprevedibile e tutte le mie borse faticosamente trascinate da treno a treno e da stazione a stazione. Con qualche vestito in più e qualche vincolo in meno.
Tornai a casa e feci andare la mia vita in una non ben determinata direzione su cui non sembro avere tuttora pieno controllo.
La mia vita precedente finì senza che fossi in grado di farne cominciare una nuova.
Mi cambiai solo d’abito.
Ora ho ripreso ad andare presto al lavoro per finire presto. Senza guardare la gente negli occhi perché nessuno ha voglia di guardarmi. E, visto che al momento, nessuno mostra desiderio di me, ho spento qualsiasi desiderio di loro.
Non cerco. Mi regalo, se capita, ma non cerco.
Ieri sera una sveglia si è sistemata con molta calma sulle mie sorprese.
Sulla via del mio rientro c’era una musica respingente, a cui non potevo prendere parte.
Di fronte a casa, ebbi la certezza che mi aveva scritto Jules, per farmi sapere di suo figlio appena nato.
Jules e un figlio. Jules e un figlio. Come dire ‘io’, ma senza di me.
Prima di scendere dalla macchina, mi tolsi le scarpe e mi massaggiai a lungo i piedi doloranti, per prendere tempo.
Riuscii a voltarmi solo per pochi secondi, perché vedere la cassetta della posta piena fu come ustionarmi.
Non c’era più fretta.
Faceva caldissimo. Credo, non lo sentivo ma ne ero certa.
Con le scarpe in una mano e le chiavi nell’altra, entrai nel cortile, mi chiusi dietro il cancello, appoggiai la schiena al metallo, scottandomi davvero, e la mia sveglia cominciò il conto alla rovescia.

[2013-01-03 23:57:12]
            

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